Evangelizzazione

Guardare dalla periferia. Una chiave evangelica al di là delle ideologie e dell'attività pastorale.

Papa Francesco ci incoraggia a guardare alle periferie. L'autore di questo articolo esplora il significato di questo invito e sottolinea che la periferia è il luogo dell'incontro con Cristo e il luogo della missione.

José Antúnez-1 ottobre 2017-Tempo di lettura: 10 minuti
La periferia come chiave si riferisce alla pesca, alla missione.

È sempre importante saper scegliere lo sguardo per vedere con profondità, giustizia e tenerezza ciò che ci viene offerto e non sprecarlo, maltrattarlo o rovinarlo. Il nostro attuale sguardo sulle periferie, incoraggiato e motivato da Papa Francesco, richiede uno sguardo adeguato, uno sguardo di fede e di amore del Vangelo, che rompa gli schemi delle categorie rigide e ingiuste delle ideologie del passato e del presente. Abbiamo bisogno di questo sguardo se non vogliamo perdere la potenza con cui lo Spirito sta giocando in questo campo, impelagandoci in discussioni sul passato o in interpretazioni superficiali che non solo non servono a nulla, ma esauriscono le energie e consumano il credente e l'evangelizzatore dall'interno.

Periferia e periferie

Guardare le periferie dal cuore del Vangelo significa andare oltre la nozione di periferia elaborata in ambito politico e sociologico, anche se ha qualche relazione con essa. Dal Vangelo, paradossalmente, la periferia diventa una torre di guardia. Senza il Vangelo, la periferia sarebbe una nozione legata esclusivamente ai fenomeni storici dell'urbanizzazione e dell'industrializzazione: periferia in termini spaziali e geopolitici equivarrebbe a tutto ciò che è lontano dal centro di attività e di potere; ci sarebbe o c'è una periferia del mondo, alcune periferie urbane, alcune periferie economiche, alcune periferie politiche, ecc. I lontani sarebbero tutti coloro che abitano le periferie e non hanno accesso al centro. 

Collegata alla geopolitica ci sarebbe una seconda periferia: la periferia sociale e culturale, costituita da tutto ciò che non è importante o decisivo per il centro socio-culturale. Le nostre democrazie, nella misura in cui funzionano, favorirebbero il decentramento e la non proliferazione di periferie impotenti; tuttavia, la debolezza e i difetti dei nostri sistemi democratici sono sfruttati dai populismi, che si nutrono - e non sono gli unici - delle loro abbondanti periferie: emarginazione culturale ed economica rispetto a colui o coloro che dettano la corrente dominante e svolgono un ruolo di manipolazione, un "chi" spesso impersonale e anonimo. Queste periferie sociali, come sottolinea Riccardi, hanno due caratteristiche: la solitudine e la violenza, a volte ben visibili; un esempio fisicamente osservabile è quello dei ghetti ricchi del Sudafrica, collegati tra loro da autostrade che formano una rete di isole collegate, tagliate fuori dalle periferie isolate e abbandonate della povertà e dell'emarginazione.

Periferia del Vangelo

Questo per quanto riguarda il fatto sociale: l'esistenza delle periferie. Ma il Papa e noi non facciamo sociologia o politica, ma evangelizziamo e leggiamo i segni dei tempi a partire dalla fede. Quando parliamo di periferie, lo facciamo perché in esse c'è qualcosa di più radicale. Credo che Papa Francesco voglia che lo sguardo dalle periferie diventi una chiave ermeneutica e pastorale. Non si tratta di guardare le periferie, ma di assumere l'"essere" della periferia, di guardare dalla periferia. Che cosa significa? In primo luogo, implica il superamento di una visione passata e centralista che vedeva la periferia come un campo di carità, qualcosa di cui il centro doveva occuparsi (vista dal centro: il ricco che fa l'elemosina, per esempio). In secondo luogo, implica il superamento della visione che vede le periferie sociali e culturali come campi da recuperare a fronte di una secolarizzazione e di un secolarismo che ce le hanno sottratte.

Il risultato del rimanere al centro è molto vario, ma ha un denominatore comune: si guarda la periferia dal centro, dall'esterno, e alla fine non si riesce a farsi carico di essa e di ciò che significa dal Vangelo. Rifiuta di assumere che il Vangelo possa non essere - anzi, non lo è più in quel senso - un centro di potere e di influenza, e forse non dovrebbe esserlo. Da lì congela il fuoco dello Spirito, paralizza la Chiesa.

Un frutto di questa prospettiva si cristallizza in una mentalità restauratrice, che ci porta a vedere la Chiesa e le nostre comunità come piccole isole evangelizzatrici, come neomonasteri medievali isolati e minacciati in mezzo ai barbari, che anelano a recuperare influenza, a tornare importanti. Siamo stati allontanati dal centro, emarginando o neutralizzando il Vangelo sia dal laicismo negativo e combattivo, sia da quello che falsamente si dichiara neutrale - ma non dal sano laicismo positivo e aperto al contributo delle religioni -; allora, se recuperiamo le periferie, torneremo a essere il centro e a evangelizzare. È una mentalità combattiva, dura, ma allo stesso tempo segnata dal complesso di essere piccoli, di dare un peso eccessivo, irrealistico, alle potenze di questo mondo, che non sono viste dal punto di vista della storia della salvezza. Questa visione è tanto realistica quanto paralizzante e giustifica la mancanza di fecondità e l'impotenza ad evangelizzare.

Questa visione centralista e non periferica è anche il frutto di molte delle difficoltà che incontriamo nell'adattare e riformare strutture pastorali che sono, in buona parte, eredi di una visione segnata dall'Impero romano e che ha permesso un divorzio tra centro e periferia. Alcuni tentativi pastorali, con cui la Chiesa ha cercato di rispondere all'appello delle periferie sociali e che sono rimasti tentativi falliti - come i preti operai a Parigi tra il 1942 e il 1953 sotto il cardinale Suhard e l'alto e amorevole interesse di Roma -, forse non hanno potuto raggiungere il loro obiettivo a causa della loro stessa radice: perché guardavano ancora alla periferia dal centro. Dalla stessa radice non periferica, per quanto guardassero alla periferia, sono nati alcuni decenni fa gli approcci di ideologie che hanno preso la forma di alcune teologie della liberazione e che fondamentalmente soffrivano dello stesso centralismo nel loro sguardo sulla periferia.

Guardare dalla periferia

Quello che sento quando ascolto e medito le parole di Papa Francesco è che egli mi chiede un cambiamento, una conversione di mentalità, un rigoroso metanoia che comporta una positiva rivoluzione pastorale e un rinnovato slancio evangelizzatore che promuova la gioia di vivere e trasmettere il Vangelo; perché il cambiamento di mentalità, verso una mentalità ancora più cristiana, e un'efficace azione pastorale nello Spirito, sono intrinsecamente legati. Questo cambiamento implica la purificazione della nostra mente dagli attaccamenti estranei. Per fare ciò, dovremmo tornare ai principi del kenosi e l'incarnazione. Dio scelse Israele nell'Antica Alleanza, una periferia tra gli imperi; quando venne il momento, si incarnò e agì in Galilea, la periferia di Israele, a sua volta periferia di Roma; nacque in un villaggio dimenticato e morì nel centro religioso di Gerusalemme, che era ancora un problema periferico per Cesare. Dio ha scelto i deboli, gli stolti secondo il mondo, e dalla periferia è arrivato al centro: Roma. Questo è ciò che Francesco ha detto ai superiori delle congregazioni religiose: "Sono convinto di una cosa: i grandi cambiamenti nella storia avvengono quando la realtà non viene vista dal centro ma dalla periferia. È una questione di ermeneutica: la realtà può essere compresa solo se la guardiamo dalla periferia, e non se il nostro sguardo parte da un punto equidistante da tutto".. A questo punto, periferia/centro, povertà/ingrassamento, debolezza/potere, grazia/volontariato, sono coppie parallele e correlate.

Come in quasi tutte le cose della vita, è fondamentale pensare a partire dalla "e" (pensiero di comunione) e non dalla "o" (pensiero dialettico e conflittuale). Guardando con il Papa alla periferia, per guardare dalla periferia, siamo tanto lontani dal cercare di sostituire il sacramento dell'altare con quello del fratello alla maniera dei progressisti - secondo l'espressione di Olivier Clement, perché così facendo abbandoneremmo la storia a se stessa e, alla fine, non sarebbe altro che una danse macabre - quanto il contrario; quello che cerchiamo di fare è dare all'Eucaristia, a Dio e alla sua azione tutta la loro ampiezza etica. Come possiamo vedere l'Eucaristia senza vedere il fratello, come possiamo vedere il fratello senza vedere l'Eucaristia, come possiamo veramente vedere il fratello senza vedere l'Eucaristia? E il nostro vivere e partecipare all'Eucaristia non è forse arricchito dal vedere il fratello, dal guardarlo dalla periferia, sia essa materiale, psicologica o morale? 

Come mi disse un amico parroco di Vallecas (Madrid), "La mia sfida in quella parrocchia è stata quella di unire le stanze in cui si trovavano i volontari con la chiesa, perché all'inizio - ed è stato difficile - né quelli nelle stanze andavano in chiesa né quelli in chiesa nelle stanze".. Non dobbiamo lasciarci sedurre dalla tentazione di resuscitare scissioni infruttuose della "o". Siamo passati a qualcosa di diverso, più radicale e più fruttuoso.

Nella forza dello Spirito

Guardare dalle periferie significa guardare la potenza di Dio all'opera nella storia, che è intrinsecamente storia di salvezza, cercando di trarre le conseguenze ultime del modo di agire di Dio, del Vangelo, per farlo nostro nel cuore e nella mente. 

Se passiamo un po' di tempo a riflettere e a pregare su questa verità, possiamo vedere la libertà e la forza che ne derivano per proclamare il Regno. Tornando al Vangelo, e questa è sempre la storia della Chiesa, torniamo alla missione, all'identità evangelizzatrice, alla Chiesa che va avanti. 

Riccardi cita il caso storico del pontificato di Gregorio Magno, in una Roma che stava cadendo e non era più il centro di nulla, in una Roma piena di poveri e indigenti. Da quella periferia, Gregorio guardò alla chiamata dell'Anglia (Inghilterra), un'altra periferia, e fu evangelizzata; il potere di Cristo non è di questo mondo, ciò che è centrale per gli uomini non è ciò che è centrale per Dio, è un'altra logica che non consiste nel tornare a ciò che era prima, né nel cadere nell'ideologia. 

Una Chiesa emarginata alla periferia, una Chiesa che guarda da Dio e, attraverso di Lui, dalle periferie, è una Chiesa con la forza dello Spirito, una Chiesa che non rimane paralizzata e che è capace di produrre, nella sua apparente massima debolezza, una grande evangelizzazione. Per molti aspetti l'esempio dell'Anglia, evangelizzata grazie alla visione periferica di Papa Gregorio, è perenne e attuale. Non solo per la Chiesa nel suo complesso. 

Applichiamola alla nostra vita personale, alla nostra sequela di Cristo, alla nostra vita spirituale e, in continuità e unità di vita, alla nostra azione pastorale e ai nostri apostolati. Francis dice: "Lo Spirito Santo ci introduce nel mistero del Dio vivente e ci preserva dal pericolo di una Chiesa gnostica e autoreferenziale, chiusa in se stessa; ci spinge ad aprire le porte per uscire, ad annunciare e testimoniare la bontà del Vangelo, a comunicare la gioia della fede, dell'incontro con Cristo. Lo Spirito Santo è l'anima della missione".

Per questo motivo, Francesco non guarda alla debolezza della Chiesa, ma, confidando nello Spirito, si lancia nell'annuncio, partendo, come dimostrano i suoi viaggi, dalle periferie delle periferie, al contrario di quanto farebbero i tattici del mondo.

Il luogo della missione

La validità di questa visione dalla periferia si mostra in modo privilegiato quando si guarda alla situazione della società postmoderna. Nella società che Baumann chiama società liquida, l'irrilevanza aumenta: viviamo tutti sempre più in modo periferico, di consumo narcisistico, di paradossale anti-illuminazione, perché non si tratta più di illuminare il popolo, ma di vendere cultura e verità apparente, di una cultura della fretta, senza tempo, in cui tutto è spazio, uno spazio piatto e superficiale. Tutto, se cambiamo la chiave linguistica, è "periferizzato". Anche sotto la maschera del multiculturalismo, si nasconde una trappola per la coscienza dell'Occidente per legittimare la mancanza di preoccupazione per l'altro, e cioè pensare: l'altro, con la sua cultura, è così (indossa un perizoma e non ha una casa, pensa che questo o quello sia giusto o sbagliato, ecc.) Di conseguenza, non dovrei fare nulla per lui perché sarebbe irrispettoso della sua idiosincrasia. Questa, che si potrebbe chiamare "periferizzazione" assoluta attraverso il relativismo, non è altro che il mascheramento del centralismo dell'io individuale isolato e incomunicante. 

Solo una visione periferica in cui Dio è all'opera libera la società da questo rischio spersonalizzante. Nella periferia letta evangelicamente si scopre la preoccupazione per l'altro, la generosità, la speranza non basata sull'autosufficienza e sull'autoreferenzialità. La periferia in senso teologico è un antidoto all'egoismo e al narcisismo; è guardare dall'altro, decentrarsi da sé, è una richiesta di conversione e possibilità di conversione, conversione personale ed esperienza ecclesiale. "La Pentecoste del cenacolo di Gerusalemme è l'inizio, un inizio che continua. [...] È lo Spirito Paraclito, il "Consolatore", che ci dà il coraggio di percorrere le strade del mondo portando il Vangelo. Lo Spirito Santo ci mostra l'orizzonte e ci spinge verso le periferie esistenziali per annunciare la vita di Gesù Cristo. Chiediamoci se abbiamo la tendenza a chiuderci in noi stessi, nel nostro gruppo, o se permettiamo allo Spirito Santo di condurci alla missione". (Francesco, Pentecoste 2013).

Un'ermeneutica della storia, della società e dell'evangelizzazione dalla periferia rende possibile la libertà cristiana e la vita evangelica. Porta alla purificazione, alla perdita delle paure e degli attaccamenti. Parlare di periferie non vuol dire prendersi in giro, dimenticare l'essenziale, ma è esattamente il contrario: uscire dall'autoreferenzialità e dall'egocentrismo, sia per mostrarci che il campo d'azione è il mondo, sia per quanto riguarda la nostra identità di Chiesa, di gruppo, di movimento, di persone. 

Mettere la periferia come chiave significa mettere al primo posto la missione: dimenticarsi di me stesso, concentrare lo sguardo sulla pesca, sul mare, confidando nella grazia e nell'unzione. Dalle periferie non c'è nessuno che sia scartato dal mio cuore, non c'è nessuno che sia irrecuperabile, si apre una possibilità di superare la cultura dello scarto.

È chiaro, dopo quello che abbiamo detto, che facciamo un salto nel pensare la periferia dal socio-economico al teologico... e io intendo il teologico come indissolubilmente legato allo spirituale, a ciò che mi identifica. La periferia è un luogo di incontro con Cristo, un luogo di conferma dell'unzione e un luogo di illuminazione. Inoltre, la periferia è il luogo della missione, perché la periferia esistenziale è dove manca la luce di Cristo. Per questo motivo dobbiamo sempre cercare di essere presenti là dove la luce e la vita del Risorto sono più necessarie (cfr. Evangelii Gaudium, 30-33).

Il potere della grazia

Cambiare, convertirsi, pensare dalla periferia, non consiste nel fare più "opere di carità". Non si tratta di una semplice azione caritatevole, ma di fare spazio a ciò che la periferia determina nella mia identità e nella mia spiritualità a partire dall'azione del Paraclito; non si tratta di fare, ma di essere. Il potere di trasformazione di questo passo è incommensurabile. Come ha evidenziato l'Anno della Misericordia ponendoci di fronte alla miseria - nelle sue tre manifestazioni: materiale, psicologica e morale/spirituale - solo se saremo misericordiosi come il Padre faremo opere di autentica misericordia e queste prolifereranno in modo creativo. E per essere misericordiosi dobbiamo andare alle periferie materiali e alle periferie morali e spirituali, perché lì troviamo la misericordia del Padre che ci cambia il cuore, che ci fa scoprire che anche noi siamo periferie, eppure siamo il centro per Dio, che veglia, si prende cura e governa il mondo per noi. Francesco lo dice molto chiaramente: "È così che dobbiamo andare a sperimentare la nostra unzione, il suo potere e la sua efficacia redentrice: nelle periferie dove c'è sofferenza, dove c'è spargimento di sangue, dove c'è cecità che desidera vedere, dove ci sono prigionieri di tanti cattivi schemi. Non è proprio nelle autoesperienze o nelle ripetute introspezioni che troveremo il Signore: i corsi di auto-aiuto nella vita possono essere utili, ma vivere la nostra vita sacerdotale passando da un corso all'altro, da un metodo all'altro, ci porta a diventare pelagiani, a minimizzare la potenza della grazia che si attiva e cresce nella misura in cui usciamo nella fede per donarci"..

È bello notare la costante pastorale del pontificato di Francesco di personalizzare al massimo l'attenzione a ogni fedele, a ogni essere umano, ovunque si trovi, andando al limite, e fa male che spesso facciamo fatica a lasciarci guidare da questo principio. Che io possa compiere i passi che lo Spirito mi chiede di fare: "A Geremia disse: "Dovunque ti manderò, tu andrai" (Geremia 1:7). Oggi, in questo "andare" di Gesù, si presentano gli scenari e le sfide sempre nuove della missione evangelizzatrice della Chiesa e tutti siamo chiamati a questo nuovo "andare" missionario. Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale strada il Signore gli sta chiedendo, ma tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla nostra zona di comfort e osare raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo". (Evangelii Gaudium, 20).

L'autoreJosé Antúnez

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