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Il cuore dell'uomo nascosto in Terra Santa

Andare in pellegrinaggio in Terra Santa non significa solo scalare le vette più alte dello spirito, ma anche immergersi negli abissi della coscienza.

Gerardo Ferrara-16 aprile 2025-Tempo di lettura: 6 minuti
TERRA SANTA

All'inizio del PasquaNon posso fare a meno di pensare a Terra SantaCi sono stato molte volte, l'ultima nel 2020, poco prima della pandemia. E il mio cuore si riempie di nostalgia per un luogo che senza dubbio considero "elevato".

Nella tradizione ebraica, andare in Terra d'Israele significa elevarsi, sia spiritualmente che fisicamente. Israele e Gerusalemme sono stati per secoli, anche per i cristiani, i luoghi più alti della terra, i più vicini a Dio, tanto che chi vi si reca a vivere o in pellegrinaggio viene chiamato, in ebraico, "'oleh", cioè "colui che va in alto", e anche la compagnia di bandiera israeliana si chiama "El Al", "in alto", perché non porta tanto al cielo, quanto a Israele, cioè al luogo più alto della terra, in senso spirituale.

In un certo senso, andare in pellegrinaggio in Terra Santa non è solo salire sulle vette più alte dello spirito, ma anche immergersi negli abissi della coscienza, esattamente come scendere da Gerusalemme a Gerico e alla depressione del Mar Morto, il punto più basso della superficie terrestre: un viaggio per capire meglio chi siamo.

Momenti di sublime spiritualità, di meditazione, di preghiera, di condivisione con amici e compagni di pellegrinaggio, si alternano a momenti di sconforto, stanchezza, intolleranza, egoismo e confusione. Si sale sul Monte Tabor, al di là delle nuvole, per godere dell'armonia del cielo, ma poi si torna alla dura realtà della vita quotidiana, una realtà fatta di ebrei, musulmani e cristiani in continua lotta tra loro, di muri divisori, di villaggi arabi che sorgono senza alcun ordine o logica, di città israeliane fatte di enormi edifici grigi, di povertà e ricchezza, di miseria e nobiltà, di accoglienza e rifiuto che si fronteggiano fianco a fianco.

Un momento è come camminare sull'acqua limpida, dolce e azzurra del Mar di Galilea, che però è capace di agitarsi all'improvviso, a causa dei venti e delle tempeste che arrivano dal Golan; in un altro, viaggiando, si passa dalle rive verdi di questo grande specchio d'acqua della Galilea per arrivare, in un paio d'ore, alle acque fangose, salate e grigiastre del Mar Morto, il mare di sale circondato dal deserto: Qui, le colline verdi e fiorite su cui Gesù annunciò la Buona Novella alla moltitudine lasciano il posto all'aridità e alle rocce su cui si ergono le fondamenta di monasteri sorti dal nulla e nascosti tra crepacci e precipizi.

La geografia della Terra Santa: tanto simile all'animo umano

Sembra naturale che Dio abbia scelto la Terra Santa per rivelarsi all'umanità. Qui la geografia dei luoghi è straordinariamente simile - nella variabilità, nei cambiamenti repentini, nell'alternanza tra aridità e ricchezza d'acqua, nel silenzio e nella confusione, nell'amenità e nella bruttezza - all'animo umano. Spesso nella vita ci si sente soli e sperduti come nel deserto del Negev; molto spesso le discese dal Tabor, il monte simbolo dei nostri momenti di vicinanza a Dio, sono traumatiche e dolorose; galleggiare nelle acque calme dei nostri momenti felici è quasi altrettanto frequente che affondare nel fango e nel sale bruciante che ci uccide e ci impedisce di vivere e farci vivere, proprio come il Mar Morto.

Personalmente, dopo aver fatto molti viaggi in questi luoghi, posso testimoniare che mi sento così, combattuto tra la gioia e la nostalgia: in mezzo a tanti bravi compagni di viaggio, mi sembrava di riascoltare le parole di Isaia e di vedere persone che non conoscevo correre verso di me per amore di Dio che mi onorava; era come assistere alla cosa più sublime del mondo su un'alta montagna: la comunione con persone care; sentivo, allora, che il fiume Giordano lavava tutte le mie impurità, guariva ogni ferita, curava ogni piaga.

Poi, tornati a casa, soprattutto in questi tempi difficili di guerre, malattie, incertezze, si ha la sensazione che quasi tutto sfugga di mano e anche l'incomparabile bellezza di una città meravigliosa come Roma (eppure così invasa dai turisti e così caotica), la città dove vivo, sembra non poter compensare la perdita di quell'alta montagna, di quel rifugio sicuro, di quelle persone con cui ho potuto condividere tanti bei momenti in tanti viaggi.

Ancora una volta, faccio l'esperienza della separazione, che è la negazione di Dio e che mi spinge a sognare il paradiso non tanto come luogo lussureggiante e piacevole, ma come comunione eterna con Dio e con tutti i miei cari, tutti coloro che ho incontrato nella mia vita e dai quali sono inevitabilmente costretto a separarmi.

È stato tutto inutile? Niente affatto!

Innanzitutto, porto con me un tesoro prezioso: la comunione spirituale con le stesse persone che mi hanno accompagnato, che hanno reso la terra d'Israele ancora più bella di quanto non sia in realtà. Con loro, anche se sono lontano dalla Terra Santa, il pellegrinaggio continua dentro e fuori di me: unirsi a loro nella preghiera è come trasformare il fiume della mia città, il Tevere, nel Giordano, San Pietro nel Santo Sepolcro, il salotto di casa mia nel Mare di Galilea, perché tutti noi siamo il nuovo Israele.

E allora mi ricordo che non c'è una Terra Santa, o meglio, che tutta la terra è santa, che sia Italia, Messico, Spagna, Cile o qualsiasi altra parte del mondo, e che tutti noi siamo custodi e strumenti del Regno di Dio che è già presente nelle nostre vite, nelle cose che facciamo ogni giorno, nelle persone che ci vivono accanto.

Così, guardando le foto di quei luoghi amati in Oriente, vedo, allo stesso tempo, i volti delle persone che mi hanno accompagnato e mi ripeto che non possiamo più vivere attaccati all'idea di una terra e di una patria in questo mondo: le nostre radici sono in un altro luogo, in una realtà diversa, forse meno visibile, ma certamente molto più concreta e resistente alle tempeste, che è la nostra fede.

Ogni cristiano è un pellegrino

In secondo luogo, penso che un vero pellegrino sia, come veniva definito nel Medioevo, un "homo viator", cioè un uomo che cammina, che consacra continuamente non solo se stesso e i luoghi tradizionali in cui si compie il pellegrinaggio, come il Cammino di Santiago, Roma o Gerusalemme, ma tutti quei piccoli ambienti fisici e spirituali della vita ordinaria, dove diventa, antropologicamente, lo strumento di una teofania, di una manifestazione del divino, attraverso le preghiere che compie camminando.

In senso cristiano, per dirla più semplicemente, un cristiano è Cristo, perché è membro del corpo di Cristo, quindi non è più lui che vive e cammina, ma è Cristo, lo stesso Cristo che camminava per le strade della Galilea, della Giudea e della Samaria e che oggi continua a camminare per le strade di Roma, Madrid, Bogotà, New York.

Divinità civilizzatrice

Infatti, nell'antropologia del Medioevo ciò che distingueva lo spazio ("káos") dal luogo ("kósmos") era una teofania: la manifestazione del divino e la presenza del sacro, attraverso cui tutto ciò che era selvaggio, pieno di demoni e superstizioni, inesplorato e incivile, incolto, diventava terra consacrata a Dio, civile, ben ordinata, governata, sicura, il "non-essere" che diventava "essere". Le strade e i santuari dell'Europa medievale, quindi, erano arterie della civiltà e i pellegrini che le percorrevano erano il sangue che scorreva, un segno della divinità civilizzatrice.

Nel libro "L'uomo vivente" di G. K. Chesterton, il protagonista è Innocent Smith, un personaggio eccentrico che riesce a cambiare in meglio le situazioni e le vite delle persone che incontra, nonostante sia ingiustamente accusato di vari reati, semplicemente perché è un uomo felice che desidera trasmettere agli altri la gioia della propria condizione. Attraverso di lui, anche il male sembra diventare bene: è lui quell'"uomo vivo".

Uomo vivente e "homo viator

Se ci pensiamo bene, noi cristiani, pellegrini in questo mondo, possiamo coniugare, nella nostra vita, i due concetti di uomo vivente e di "homo viator". Ogni giorno possiamo riconsacrare le strade, le piazze, i quartieri dei nostri Paesi afflitti, in questi tempi di povertà materiale e spirituale e di crisi in ogni ambito dell'esistenza umana. Non abbiamo bisogno di essere così degni o senza peccato, perfetti e realizzati nella nostra vita e nel nostro lavoro. È sufficiente nutrirci quotidianamente della fonte della vita per diventare uomini e donne vivi e, percorrendo le strade della nostra vita, "homines viatores", portatori della grazia che riceviamo senza meritarla.

Così, anche se non possiamo lasciare le nostre città e i nostri Paesi per andare in Terra Santa, possiamo camminare sulle acque, e non solo senza paura di affondare, ma aiutando gli altri a non affondare.

Buona Pasqua!

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