In ogni campo della conoscenza umana, la comprensione dell'essenza del rispettivo oggetto è decisiva. Nel campo del diritto, la necessità di tenere costantemente presente cosa sia il diritto è molto evidente; lo stesso vale per la legge della Chiesa.
Non si tratta di una questione meramente teorica, elegante o squisita, ma di una questione che, di fatto, informa e determina l'intero lavoro pratico del giurista, e in particolare del canonista, e che è molto importante anche per la comprensione del diritto canonico da parte dei non specialisti.
Quando questo problema viene evitato, può significare che certi schemi impoveriti vengono accettati meccanicamente, persino distorcendo la realtà, con la triste conseguenza di avallare le ingiustizie.
Attualmente, mi sembra che ci sia un paradosso a questo proposito. Da un lato, c'è un accordo abbastanza diffuso a livello teorico sull'importanza di concepire il diritto nella Chiesa alla luce del mistero della Chiesa stessa, come indicato dalla Concilio Vaticano II (cfr. Optatam totius, n. 16). Si è consapevoli che un approccio positivista, inteso soprattutto come un semplice legalismo che considera il diritto canonico come un mero insieme di leggi umane da applicare senza ulteriori indugi ai casi concreti, non è attualmente disponibile.
Il recente magistero pontificio è molto chiaro e ribadito in questo senso: il diritto canonico deve essere visto come una realtà intrinsecamente ecclesiale, come una realtà che appartiene al piano soprannaturale della fede e della teologia. Tuttavia, ciò è curiosamente compatibile con un persistente legalismo di fatto: sia coloro che difendono il diritto ecclesiale sia coloro che lo criticano o, più spesso, semplicemente lo ignorano, continuano in pratica a pensarlo come un insieme di norme giuridiche, che trova la sua principale espressione nei Codici vigenti, latini e orientali. La convinzione di fondo sopra descritta non sembra aver influenzato l'effettivo approccio e l'attuazione del diritto nel Popolo di Dio.
Alla radice di questo fenomeno possiamo vedere che sono profondamente radicate alcune opposizioni fondamentali: legge-teologia; legge-pastorale; potere gerarchico-libertà e diritti dei fedeli. Sono pezzi che non si incastrano. Fondamentalmente, nonostante tutti i progressi teologici che sono stati fatti, il precedente concetto di Diritto canonico come un insieme di leggi ecclesiastiche. E questo concetto appare poco teologico e poco pastorale, di per sé contrario alla libertà dei figli di Dio. Quanto più una legge ecclesiastica è teologica, pastorale e promotrice della libertà, tanto meno dovrebbe essere "giuridica".
La matassa sopra descritta non è facile da districare. Ci vorrà del tempo perché si recuperi una serena consapevolezza di ciò che è il diritto nella Chiesa e perché questa consapevolezza sia effettivamente rinnovata, cioè si integri tutto ciò che di valido c'è nella tradizione canonica con i contributi dell'ultimo Concilio e di tutto questo periodo della storia della Chiesa.
Ritengo che sulla questione che ho presentato si possano assumere tre posizioni fondamentali. Cercherò di descriverle brevemente, senza entrare nei dettagli delle loro formulazioni, per andare più direttamente al cuore delle loro idee e non rimanere invischiati in dispute scolastiche che, tra l'altro, in questo campo tendono attualmente a confondersi.
Legge e realtà pastorale
In primo luogo, questa nuova tappa può essere vista soprattutto come un tentativo di trasformare il diritto in una realtà più pastorale, più vicina alla vita dei fedeli e delle comunità cristiane. È una tendenza positiva, nella misura in cui reagisce contro gli eccessi di una rigidità legalistica e formalistica, che trasforma l'osservanza delle regole e delle forme in fini autonomi, che dimentica la funzione altrimenti tradizionale dell'equità, sia come correzione delle carenze delle regole umane generali sia come moderazione della sola giustizia attraverso la carità e la misericordia. È positivo anche evitare una concezione esclusivamente gerarchica del diritto, come se esso consistesse solo negli imperativi dei sacri Pastori, dimenticando la dimensione giuridica del livello di uguaglianza e libertà che si fonda sulla comune dignità cristiana di tutti i battezzati, partecipi dell'unica missione della Chiesa e beneficiari dell'azione dello Spirito Santo attraverso i suoi doni e carismi.
Tuttavia, la pastorale non può degenerare in pastoralismo, cioè in un atteggiamento che, in nome della pastorale, cerca di ignorare o attenuare altre dimensioni essenziali del mistero cristiano, compresa la dimensione giuridica.
Se la pastorale diluisce qualsiasi obbligo giuridico, relativizza qualsiasi obbedienza ecclesiale, svuota in pratica le norme canoniche del loro significato ed esercita qualsiasi tipo di cosiddetto diritto senza preoccuparsi della sua legittimità cristiana, allora si è deformata anche come pastorale. La vera pastorale non può mai essere contraria alla vera legge della Chiesa. Per capire questo, però, è essenziale capire che cos'è questa legge. Solo così si può cogliere l'armonia costitutiva tra pastorale e diritto.
La dimensione teologica del diritto canonico
Un'altra corrente ha sottolineato in modo particolare la dimensione teologica del diritto. Sebbene non sia unica, l'importanza della scuola di Monaco, che ha avuto origine a Klaus Mörsdorf.
Già prima del Concilio, Mörsdorf aveva insistito sul fatto che il diritto canonico è qualcosa di intrinseco alla Chiesa, da comprendere in relazione alla sacramentalità della Chiesa stessa, e da situare più specificamente nella parola e nei sacramenti, come fattori intrinsecamente giuridici che edificano il popolo di Dio. Tra i suoi discepoli è particolarmente noto Eugenio Corecco, che ha radicalizzato le tesi del suo maestro, propendendo per una concezione che sottolinea fortemente la differenza tra diritto canonico e diritto secolare, e che concepisce la scienza canonica come una scienza essenzialmente teologica. Egli utilizza il concetto di comunione come chiave di lettura del diritto nella Chiesa, sostenendo che nella Chiesa regnerebbe la virtù della carità, non la giustizia dei giuristi.
Anche in questo caso è necessario discernere tra aspetti indubbiamente pregevoli di questo approccio - soprattutto la sua visione del diritto canonico come qualcosa di intrinsecamente legato al mistero della Chiesa e il suo ricorso a realtà teologiche fondanti - e i suoi limiti, derivanti a mio avviso soprattutto dalla dimenticanza della giustizia come virtù specifica del mondo giuridico, che non coglie che nel diritto canonico, con il suo contenuto soprannaturale, è presente e opera una dimensione naturale della convivenza umana.
Il diritto canonico nel realismo giuridico
La terza corrente insiste sulla quasi ovvietà che il diritto canonico è il vero diritto.
Al suo interno esistono diverse varianti. A questo punto, scarterò quelle che cercano di adottare una visione meramente tecnico-strumentale del diritto, e che assumono le stesse opposizioni diritto-teologia, diritto-pastorale, solo a favore del diritto. Molto più interessanti, invece, sono quelle dottrine che cercano di applicare al diritto canonico il meglio della tradizione giuridica classica e cristiana. Penso in particolare agli sforzi dei miei indimenticabili maestri, Pedro Lombardía e Javier Hervada, e soprattutto al tentativo di quest'ultimo di affrontare il diritto nella Chiesa dal punto di vista del realismo giuridico classico, cioè dalla nozione di diritto come ciò che è giusto, oggetto della virtù della giustizia.
In questa prospettiva, il diritto nella Chiesa non è innanzitutto un insieme di norme, ma ciò che è giusto nella Chiesa stessa, una rete di relazioni di giustizia all'interno del Popolo di Dio (che si proiettano anche all'esterno, seguendo la missione universale della Chiesa). A questo punto vorrei sottolineare alcune caratteristiche fondamentali di questo approccio, che ci permettono di apprezzarne la potenziale fecondità.
Soprattutto, la prospettiva della giustizia assume pienamente il protagonismo della persona umana nella Chiesa: l'uomo come via della Chiesa, secondo la nota espressione di Giovanni Paolo II. Ciò che è giusto, sintesi di elementi essenziali e permanenti (diritto divino) e di elementi contingenti e storici (diritto umano), si riferisce sempre alle persone, in quanto titolari di diritti e doveri reciproci. Il centro del Diritto Canonico è ogni persona umana, e in primo luogo i fedeli.
Ma questo non comporta alcun pericolo di individualismo. Ciò che è dovuto in giustizia a ciascuno nella Chiesa esiste proprio perché il disegno salvifico di Dio in Cristo e nella Chiesa presuppone la socialità umana, nei suoi aspetti di carità e anche di giustizia specifica. Stiamo affrontando il grande tema della comunione, che cattura sempre più l'attenzione dell'ecclesiologia del nostro tempo, come nucleo stesso dell'insegnamento del Vaticano II sulla Chiesa. Il diritto canonico è allo stesso tempo, e inseparabilmente, personalistico e comunionale, proprio perché l'appartenenza alla Chiesa comporta una relazionalità comunionale della persona, di natura intrinseca.
Il cuore del diritto canonico
Queste idee diventano più concrete e chiare se si considera qual è l'oggetto delle relazioni di giustizia intraecclesiali. Sono in gioco molti beni giuridici, compresi quelli di natura patrimoniale e organizzativa. Tuttavia, il cuore del diritto canonico si trova nel cuore stesso della Chiesa nella sua dimensione visibile-sacramentale, cioè nei beni salvifici: la Parola di Dio e i sacramenti, a partire dal centro di questi, il Sacrificio sacramentale dell'Eucaristia.
I diritti e i doveri dei fedeli tra di loro, e tra i Pastori e gli altri fedeli in ragione del sacerdozio ministeriale, hanno come oggetto questi beni salvifici, che ovviamente vanno al di là della dimensione giuridica, ma la includono anche come necessaria.
Così, ad esempio, trasmettere la Parola di Dio nella sua autenticità costituisce per un genitore cristiano un vero e proprio dovere di giustizia intraecclesiale nei confronti dei propri figli; anche organizzare i pastori in modo che i sacramenti siano effettivamente accessibili a tutti è un'esigenza permanente di giustizia.
Questa visione permette di superare armoniosamente la sterile dialettica che così spesso oscura la comprensione del diritto canonico. Inteso come ciò che è giusto nella Chiesa, la sua trascendenza teologica è immediatamente evidente: è una dimensione dello stesso mistero salvifico, poiché Gesù Cristo ha voluto che la Chiesa pellegrina assumesse, come lui stesso nella sua esistenza terrena, la realtà del diritto; e non per ragioni accidentali o circostanziali, ma soprattutto per unirci gli uni agli altri nella conservazione e nella diffusione dei beni della salvezza nel loro aspetto visibile. È quindi facile comprendere perché abbiamo sempre visto il salus animarum come scopo proprio del diritto nella Chiesa. È uno scopo intrinseco, connaturato al suo stesso essere, non una sorta di aggiunta.
Il diritto canonico è salvifico proprio in quanto diritto, come ciò che è giusto, non nonostante sia giusto, come se fosse un male minore, richiesto per mere ragioni organizzative, puramente esterne. Da questo punto di vista, le nozioni ecclesiologiche di comunione e sacramentalità possono essere applicate alle questioni giuridiche ecclesiali in un modo che va al di là di qualsiasi opposizione tra esse e la legge. È molto meglio scoprire che il diritto nella Chiesa, proprio in quanto diritto, è una realtà intrinsecamente salvifica, ecclesiale, teologica.
Anche la natura pastorale del diritto è illuminata da questa nozione. È ovvio che la giustizia è per sua natura pastorale, anche se nella vita ecclesiale e nell'azione dei pastori deve naturalmente andare molto oltre, attraverso la carità. Tuttavia, la misericordia non può mai diventare una convalida dell'ingiustizia.
La presunta natura pastorale di soluzioni che non rispettano la verità di ciò che è giusto, perché relativizzano tutto secondo le esigenze soggettive, si rivela nella pratica profondamente sterile. Non esigere ciò che è dovuto in termini di giustizia, in questioni fondamentali come quelle riguardanti la validità del matrimonio e l'accesso alla Santa Comunione, nonostante le apparenze momentanee, non fa altro che allontanare le persone dall'incontro salvifico con Cristo, e di fatto porta sempre a un ulteriore raffreddamento della vita cristiana. Altra cosa è andare incontro alle persone in difficoltà, con la squisita carità e pazienza su cui tanto ha insistito Papa Francesco, cercando proprio di metterle in condizione di scoprire nella loro vita la bellezza delle esigenze del vero amore. Anche ciò che è giusto in virtù di una legittima norma umana, sempre al servizio della stessa dimensione essenziale e divinamente costituita della giustizia intraecclesiale, va osservato come doverosa manifestazione di comunione in ogni momento concreto della storia della salvezza. Va anche considerata la recente riscoperta della necessità di comminare sanzioni canoniche per comportamenti che costituiscono una grave violazione dei beni giuridici, come nel caso degli abusi sessuali commessi da chierici nei confronti di minori: il bene della Chiesa, la vera cura pastorale, richiede quindi il ricorso a sanzioni ecclesiali, che devono essere sempre applicate attraverso un giusto processo.
Infine, anche l'opposizione tra potere gerarchico e diritti dei fedeli non ha senso. I pastori, anche quando esercitano in senso proprio gli atti del potere di giurisdizione, sono veramente al servizio dell'autentica libertà dei figli di Dio. Il loro ministero è veramente liberante, anche nel senso che deve promuovere la vitalità apostolica di tutti, che in realtà consiste nel favorire un atteggiamento di docilità ai doni carismatici dello Spirito Santo. Questa libertà, però, è inseparabile dall'unione con i Pastori, prima di tutto con quelli che succedono ai Dodici Apostoli e con quello che succede a Pietro, e poi con i suoi collaboratori nel sacro ministero.
La fede cattolica non vede la missione gerarchica in funzione di una semplice efficacia dell'autorità sociale (sebbene anche questa dimensione sia assunta nella Chiesa), ma come un aspetto del mistero ecclesiale in cui risplende il senso verticale della comunione, attraverso la rappresentazione di Cristo assunta da coloro che hanno ricevuto il sacramento dell'Ordine. C'è qui un mistero di autentica paternità, una partecipazione alla paternità divina, che ci porta a pensare alla Chiesa come a una famiglia, cioè come a un tipo di realtà sociale in cui si trasmette la vita, in questo caso la vita soprannaturale. Questo, naturalmente, non può in alcun modo oscurare la radicale uguaglianza di tutti gli uomini nella salvezza conquistata da Cristo, e la conseguente radicale uguaglianza di tutti i battezzati nella Chiesa.
Possiamo dire che tra i diritti più importanti dei fedeli c'è proprio quello di godere di Pastori che compiano il loro dovere in quanto tali, per rendere presente Cristo come Capo nei sacramenti e nella Parola. Tutto questo non si oppone affatto alla partecipazione dei fedeli laici alla sfera istituzionale della Chiesa, con la loro voce importante negli organismi sinodali e potendo assumere compiti ecclesiali per i quali non è richiesto il sacramento dell'Ordine, senza dimenticare che il luogo in cui i laici devono costruire la Chiesa è soprattutto quello delle realtà temporali: la famiglia, il lavoro, la cultura, la vita pubblica, ecc.
Inteso in questo modo, il diritto rientra perfettamente nell'ambito della missione salvifica della Chiesa. La consapevolezza dell'attualità del mistero dell'Incarnazione del Verbo implica anche il fare ogni sforzo affinché si attui il diritto di ogni persona all'incontro personale con Cristo attraverso i beni salvifici che Egli ha lasciato alla sua Chiesa.
Per concludere vorrei citare alcune recenti parole di Papa Francesco in un corso di aggiornamento sul diritto canonico promosso dalla Rota Romana, che sottolineano il rapporto del diritto ecclesiale con la vita e la missione della Chiesa: "Possiamo chiederci: in che senso un corso di diritto è legato all'evangelizzazione? Siamo abituati a pensare che il diritto canonico e la missione di diffondere la Buona Novella di Cristo siano due realtà separate. È invece decisivo scoprire il legame che le unisce all'interno dell'unica missione della Chiesa. Si potrebbe dire schematicamente: né diritto senza evangelizzazione, né evangelizzazione senza diritto. Infatti, il cuore del Diritto Canonico riguarda i beni della comunione, in primo luogo la Parola di Dio e i Sacramenti. Ogni persona e ogni comunità ha il diritto - ha il diritto - all'incontro con Cristo, e tutte le norme e gli atti giuridici tendono a promuovere l'autenticità e la fecondità di questo diritto, cioè di questo incontro. Pertanto, la legge suprema è la salvezza delle anime, come afferma l'ultimo canone del Codice di Diritto Canonico (cfr. canone 1752)" (Discorso del 18 febbraio 2023).
Professore di Diritto canonico. Pontificia Università della Santa Croce.