Educazione

Mark Lewis: "Il mio obiettivo è lasciare l'università meglio di come l'ho trovata".

A maggio entrerà in vigore il nuovo statuto della Pontificia Università Gregoriana. In questa occasione, Omnes ha parlato con padre Mark Lewis, rettore dell'Università Gregoriana dal settembre 2022.

Andrea Acali-4 maggio 2024-Tempo di lettura: 7 minuti

Si avvicina la Pentecoste, il 19 maggio, data in cui si celebra la nuova nuovi statuti dell'Università Pontificia Gregoriana. È la più antica e prestigiosa istituzione accademica della Chiesa. Fu fondato da Sant'Ignazio di Loyola nel 1551, come Collegio Romano, e nel 1873, per volere di Papa Pio IX, assunse il nome attuale. Oggi conta quasi 3.000 studenti provenienti da oltre 125 Paesi di tutto il mondo. Non solo sacerdoti diocesani, seminaristi, religiosi e religiose, ma anche, in più di 21%, laici. Nel 1928, Papa Pio XI volle associare alla Gregoriana il Pontificio Istituto Biblico e il Pontificio Istituto Orientale.

Abbiamo parlato padre Mark Lewis, originario di Miami, dove è nato nel 1959, docente di Storia, rettore della Gregoriana dal settembre 2022, che ci riceve nel suo studio in piazza della Pilotta, nel cuore di Roma.

Quali sono le novità principali dei nuovi statuti e cosa comporteranno?

«Il cambio più importante è l’unificazione dell’Istituto Biblico, dell’Orientale e dell’attuale Gregoriana in una nuova Università integrata, in modo da rendere più agevoli le loro tre missioni. In particolare con l’organizzazione di un’economia di scala, una diversa organizzazione di carattere amministrativo, con la riduzione delle cariche, per esempio un solo rettore invece di tre».

Dunque oltre a facilitare la missione dell’Università ci sarà anche un risparmio economico?

«Speriamo. All’inizio probabilmente no, perché ci sono dei costi di integrazione. Ma per esempio pensiamo di risparmiare a livello di acquisti. Per esempio, abbiamo tre biblioteche, che rimangono con i loro spazi, ma ora ci sono sempre più libri e riviste elettronici; dunque, se possiamo acquistare un unico abbonamento per tutti sarà molto più conveniente. Come pure il fatto di avere un solo economo, con gli acquisti centralizzati. Poco a poco pensiamo di arrivare a questo risparmio necessario».

Lei è rettore della Gregoriana da un anno e mezzo. Quali sono i principali obiettivi del suo mandato?

«Il mio obiettivo, l’ho detto appena nominato, è di lasciare l’Università meglio di come l’ho trovata. Penso che il ruolo del rettore sia quello di guardare al futuro, a distanza di dieci anni, perché il mondo universitario è molto lento, non si cambia direzione immediatamente, e occorre pensare quali sono i bisogni dell’epoca e andare in questa direzione. All’inizio dell’anno ho usato un’immagine rubata dall’hockey ma che si può applicare anche al calcio. Mi hanno parlato di Messi, che ora gioca al Miami; dicono che lui nel primo periodo cammina per il campo e guarda. Dopo un po’ sa più o meno dove arriverà il pallone. E si fa trovare lì. Non è facile, non dico che posso fare questo ma questa è la sfida, pensare dove va la Chiesa, dove va il mondo e come possiamo aiutare entrambi nel futuro. Questo è l’obiettivo».

E le maggiori difficoltà?

«Probabilmente il fatto che un’istituzione accademica come questa, come dicevo, è molto lenta, molto tradizionale. Si dice che la preghiera e la Chiesa sono le cose più lente a cambiare ma penso che il mondo accademico sia sul podio! Si tratta di invitare i docenti e gli studenti a pensare in un altro modo. È una sfida ma se ci riusciremo sarà un’ottima cosa per il futuro».

La Gregoriana è la più antica università pontificia. Forma studenti da tutto il mondo. Come si pone oggi di fronte alle sfide della cultura contemporanea e alla globalizzazione?

«Nel 1551, quando fu fondata, era vista come un collegio, un’università per tutte le nazioni; ma in quell’epoca si parlava di Europa: Germania, Inghilterra, questa era la frontiera.
Poi poco a poco con il successo missionario è venuto un po’ tutto il mondo e adesso abbiamo tanti Paesi da cui provengono gli studenti. Questa è una sfida: creare una comunità universitaria con tante culture. Io vivo qui nella comunità gesuita e anche qui veniamo da tutto il mondo: penso che il nostro esempio, il fatto che siamo abbastanza felici insieme, sia un buon modello per tutti, davvero vediamo il mondo da varie angolazioni e questo è molto importante anche per l’università. È importante per gli studenti venire a Roma e vivere questa esperienza al centro della Chiesa ma anche, tramite i loro compagni di studio, conoscere tutta la Chiesa. Penso che magari qualcuno che viene dagli Stati Uniti può conoscere qualcun altro che viene dal Burundi e poi quando sente notizie di quel paese può dire di conoscere una persona di quel luogo, che dà un po’ più di realtà alla storia e non fa pensare soltanto a un posto lontano. Penso che sia molto importante questo modo di contestualizzare.
L’altra sfida è l’insegnamento della teologia a varie culture. Storicamente era in latino, era eurocentrico ma ora per forza dobbiamo insegnare teologia della liberazione dall’America Latina, la teologia che dialoga con tante religioni orientali, e questo è necessariamente nostro compito. Mi piace questo perché siamo “costituzionalmente” un’università internazionale. Sento tante università degli Stati Uniti che desiderano avere più studenti da tutto il mondo, noi siamo così fin dall’origine».

E come vi trovate ad affrontare il calo demografico e di vocazioni?

«È un’altra sfida perché c’è un calo demografico in Europa e in Nord America ma qui è molto graduale perché accogliamo studenti di tutto il mondo e ci sono Paesi che risentono meno di questo fenomeno. Per esempio, abbiamo sempre più iscritti dal Brasile, in Vietnam pure ci sono molte vocazioni e per questo non ne risentiamo in modo così notevole come qualche seminario nazionale. Però dobbiamo pensare anche che il numero dei seminaristi tende a scendere. La percentuale dei laici non può crescere molto di più semplicemente perché vivere a Roma è un po’ caro per i nostri studenti. Di italiani ne abbiamo, possiamo ospitarli abbastanza bene ma è un po’ più difficile invitare qualcuno dai Paesi in via di sviluppo. Possiamo dare borse di studio ma per vivere non è sufficiente per tanti di loro».

Il Papa ha indicato la strada di una riforma delle università ecclesiastiche e in particolare ha chiesto qui a Roma una maggiore collaborazione e sinergia tra le università pontificie. A che punto è questo lavoro e quali sono le prospettive?

«A febbraio dello scorso anno studenti e docenti dei 22 istituti pontifici a Roma si sono riuniti con il Papa e l’immagine che mi è piaciuta più di tutte è che dobbiamo cantare come un coro, non come solisti. Adesso con questa integrazione di Pentecoste saranno due in meno.
Ma ovviamente l’altra faccia della medaglia è cercare maggiore collaborazione. Penso che sia molto importante che la CRUIPRO, l’organizzazione dei rettori dei vari istituti pontifici, abbia già cominciato prima a cercare situazioni in cui collaborare. Abbiamo per esempio la possibilità di scambiare studenti tra le università per i corsi del primo ciclo e questo permette loro di conoscere più posti di Roma e un altro modo di studiare.
Certo, come gesuiti abbiamo fatto questo accorpamento e qualcuno dice che è un modello da seguire ma è molto più facile quando c’è un unico generale, siamo tutti gesuiti, ed è già abbastanza difficile così, ma questa è la sfida per gli altri. Sappiamo che le sei università pontificie hanno già iniziato a razionalizzare un po’. Non sappiamo ancora quale sarà il modello ma stiamo facendo passi avanti in questa direzione».

Lei ha insegnato negli Stati Uniti dove ha avuto un’esperienza diversa del modo di fare lezione. Ce ne vuole parlare? È una modalità applicabile anche qui? E in generale, come si può innovare la didattica mantenendo uno standard qualitativo elevato?

«È la priorità del nostro piano strategico. Abbiamo avuto la visita di Avepro, l’agenzia per la valutazione della qualità delle università pontificie, e abbiamo deciso che dobbiamo cercare di approfondire la qualità dell’educazione. Non dire che siamo bravi ma studiare e pensare altri metodi didattici. Stiamo per attivare un centro di didattica per i nostri docenti che sarà aperto anche ad alcuni nostri dottorandi per esplorare altre modalità di insegnamento. Le università pontificie hanno una tradizione molto forte, come il sistema italiano, di lezione frontale con esame orale alla fine. Per molti anni ha funzionato molto bene e il vantaggio per il docente è di poter avere 40, 50 o 60 studenti ma nell’epoca delle tecnologie, dove gli studenti sono molto più abituati a un’istruzione individualizzata, dobbiamo ripensare questo. Una delle cose che ho provato negli Stati Uniti, e anche qui finché non ho dovuto lasciare il corso, è di capovolgere l’aula. Siamo abituati ad andare in aula, sentire la lezione, andare a casa e fare i compiti scritti. Con l’intelligenza artificiale questo è sempre più problematico. Capovolgere significa mettere a disposizione on line la lezione frontale, con un esame di comprensione, che può essere pure elettronico e verificato automaticamente, in modo da arrivare in aula con le domande, le discussioni e anche con i compiti da fare in piccoli gruppi. Questa è una possibilità, più intensiva dal punto di vista del docente e sappiamo che non tutti seguiranno questa modalità, ma è mia intenzione esplorare questa strada con il corpo docente».

La collaborazione e gli scambi anche internazionali sono un elemento importante della conoscenza e della divulgazione accademica. C’è un piano in questo senso? È possibile arrivare ad una specie di Erasmus anche per le università pontificie?

«Al momento, come si sa, l’Erasmus non è disponibile per le università pontificie. Noi abbiamo una rete di università gesuite e ne possiamo approfittare e poi la Federazione delle università europee ha un programma di intercambio di cui pure possiamo approfittare. Per noi l’ostacolo principale è che i seminaristi devono essere qui per la formazione sacerdotale. Anche i laici sono venuti per stare a Roma: essendo studenti internazionali, è un po’ meno utile per noi. Allo stesso tempo, ospitiamo tanti che vengono da fuori ma anche lì la sfida è trovare un posto per vivere. È un peccato che noi non abbiamo una residenza come altri atenei, quello è un aiuto importante».

A che punto è il nodo dell’equipollenza dei titoli con lo Stato italiano?

«Ci sono stati passi avanti. Avremo un incontro nel Dicastero per l’educazione nelle prossime settimane ma dal concordato di Bologna era molto importante per la Chiesa avere le università come parte del sistema universitario europeo. Siamo e non siamo… finalmente lo Stato italiano ha cominciato a riconoscere l’equivalenza dei corsi; non è il riconoscimento del titolo ma consente di andare avanti negli atenei statali».

La Chiesa si prepara a vivere due grandi appuntamenti mondiali: la seconda parte del Sinodo sulla sinodalità e il Giubileo del 2025. La presenza di studenti da tutto il mondo offre alla Gregoriana la possibilità di avere una visione molto ampia in questa prospettiva. Quale può essere il contributo del mondo accademico a questi due eventi?

«Tanti nostri docenti partecipano al Sinodo come membri, esperti e facilitatori. All’inizio della sessione dell’anno scorso abbiamo fatto un convegno sulla teologia sinodale, alla fine prevediamo di fare qualcosa basato su questa esperienza. Penso che sia un modo per aprire e chiudere il Sinodo con un taglio accademico e teologico. Il Giubileo poi è un’occasione che mi piace molto perché è un’opportunità di accogliere persone da ogni parte. Sto pensando di fare qualcosa qui con alcune ambasciate per condividere l’arte e l’esperienza della Chiesa nel loro paese, forse nel quadriportico, in modo da celebrare anzitutto il Giubileo ma anche celebrare qui, al centro, la Chiesa presente in tutto il mondo, approfittando di questo movimento dalla periferia al centro. Senza dimenticare che abbiamo un diploma in beni culturali che prepara le guide che eventualmente possono essere utilizzate nell’Anno Santo».

L'autoreAndrea Acali

-Roma

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Vocazioni

Joseph Dinh Quang Hoan: "In Vietnam ci sono molti giovani disposti a servire la Chiesa".

Questo sacerdote vietnamita della diocesi di Thai Binh si trova attualmente a Roma, dove studia grazie a una borsa di studio della Fondazione CARF per poter formare futuri sacerdoti nel suo Paese d'origine.  

Spazio sponsorizzato-3 maggio 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

Originario del nord del Vietnam, Joseph è nato in una famiglia cattolica multigenerazionale che fa parte di una comunità religiosa di circa 100 cristiani. Quando aveva 12 anni, l'esempio di un seminarista venuto nella sua comunità lo ha commosso e lo ha portato al discernimento vocazionale. Ora, come sacerdote, vuole servire la gente nella terra in cui è nato e cresciuto. 

Com'è la convivenza con persone di altre religioni in Vietnam? 

-In Vietnam ci sono attualmente 54 gruppi etnici diversi. Il mio Paese ha una lunga storia di diversità religiosa, con varie religioni e sistemi di credenze che coesistono da secoli. Da antiche forme religiose come il totemismo, lo sciamanesimo e l'animismo al cattolicesimo, al buddismo, al protestantesimo e all'islam. Questo contesto storico ha contribuito a creare un atteggiamento relativamente tollerante nei confronti delle diverse fedi. Devo dire che, sebbene il cristianesimo sia una religione di minoranza, tendiamo a partecipare ad attività sociali e caritatevoli a beneficio della comunità in generale, indipendentemente dalla nostra appartenenza religiosa. Questo favorisce una buona impressione da parte degli altri sulle comunità cristiane, in particolare su quella cattolica. 

So che la situazione è molto diversa in ogni regione del Vietnam. Nel mio caso, la mia famiglia viveva in una piccola comunità cristiana in una piccola città e non abbiamo avuto conflitti con i nostri vicini che non condividono lo stesso credo. Inoltre, siamo orgogliosi di essere cattolici, ma rispettiamo anche il credo degli altri. 

Quali sono le sfide che la Chiesa cattolica deve affrontare in un Paese come il Vietnam?

-Oggi si può dire che la Chiesa in Vietnam affronta ancora molte sfide e difficoltà sotto diversi aspetti, come l'ideologia atea, i pregiudizi verso i cattolici e la comprensione imprecisa della dottrina della Chiesa. Nonostante le difficoltà e le persecuzioni, la Chiesa in Vietnam cresce di giorno in giorno.

Inoltre, l'economia di mercato e la teoria sociale relativista hanno indotto molti giovani cattolici ad avere pensieri sbagliati, portandoli ad adorare i valori materiali e a dimenticare la fede che i nostri antenati ci hanno trasmesso con il loro prezioso sangue. 

Credo che, a prescindere dalle sfide che dovrà affrontare, la Chiesa in Vietnam sarà sempre fedele alla fede e alla nostra Madre Chiesa.

Come vede il futuro della Chiesa nel suo Paese? 

-In Vietnam ci sono circa 7 milioni di cattolici, che rappresentano il 7,4 % della popolazione totale. Ci sono 27 diocesi (comprese tre arcidiocesi) con 2.228 parrocchie e 2.668 sacerdoti, e la Chiesa in Vietnam sta crescendo rapidamente.

In effetti, il numero di vocazioni nella Chiesa vietnamita è molto alto. Molti giovani sono disposti a impegnarsi nel cammino religioso, diventando sacerdoti e religiosi per servire la terra del Vietnam, ma anche per intraprendere missioni missionarie in tutto il mondo. Nella mia diocesi di Thai Binh, una piccola diocesi, abbiamo attualmente circa 100 seminaristi e molti religiosi, suore e fratelli. Sono il futuro della Chiesa.

Che contributo dà al suo ministero la formazione ricevuta a Roma?

-Venire a Roma per studiare non è solo il mio sogno, ma anche quello di molti fedeli vietnamiti. Nella mia diocesi si sta costruendo il seminario maggiore del Sacro Cuore di Thai Binh, quindi c'è bisogno di insegnanti. Voglio studiare il più possibile per poter tornare a servire la formazione intellettuale nella mia diocesi.

Cosa ha apprezzato di più del suo soggiorno a Roma?

Vivendo e studiando a Roma sento più chiaramente una Chiesa viva, multietnica, multiculturale e reciprocamente rispettosa. Vivo in un collegio di sacerdoti provenienti da molti Paesi diversi. Questo mi aiuta a capire l'integrazione culturale, la bellezza della fraternità e lo scambio di conoscenze ed esperienze pastorali.

Sono molto grata alla Fondazione CARF per avermi permesso di studiare alla Pontificia Università della Santa Croce a Roma. Prego e ricordo sempre coloro che mi hanno aiutato nella mia vocazione e nello studio.

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Attualità

Le donne nella Chiesa, il tema del numero di maggio della rivista Omnes

La rivista cartacea di maggio 2024 si concentra sul ruolo delle donne nella Chiesa e sul dibattito sul sacerdozio femminile attraverso vari contributi e interviste. La rivista presenta anche la Giornata mondiale dell'infanzia e l'ultimo Forum Omnes.

Maria José Atienza-3 maggio 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

Le donne nella Chiesa sono al centro del numero di maggio 2024 della rivista Omnes. Un approccio all'insondabile ricchezza che milioni di donne apportano alla vita della Chiesa in molti ambiti diversi.

Speciale sulle donne nella Chiesa

La presenza delle donne nella Chiesa è un lavoro sempre attuale e necessario, da cui emergono questioni fondamentali per la vita di ogni cattolico, come la vocazione e la missione dei laici.

Questo dossier di Omnes contiene interviste a due donne che hanno studiato questo ruolo femminile nella Chiesa e lo hanno vissuto in prima persona. Prima di tutto, Marta Rodríguez Díaz, specialista in teorie di genere e

Professore presso la Facoltà di Filosofia dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, dove coordina l'area accademica dell'Istituto di Studi Femminili, che evidenzia, tra l'altro, come le donne nella Chiesa abbiano la sfida di incarnare una femminilità luminosa, dalla quale aprire percorsi profetici per la Chiesa che rispondano ai segni dei tempi odierni. Da parte sua, María García Nieto, giurista e autrice di La presencia de la mujer en el gobierno de la Iglesia. Una prospettiva giuridica sottolinea la necessità di comprendere il significato di un'istituzione gerarchica come la Chiesa e il ruolo di uomini e donne laici nel suo governo.

Oltre all'esempio di santi di tutti i continenti e di tutte le epoche, Omnes raccoglie in questo dossier la testimonianza di Lidia Quispe e Frankie Gikandi, l'una dagli altopiani boliviani e l'altro da una zona rurale del Kenya, che attraverso il loro lavoro quotidiano, la loro collaborazione nella comunità e le loro iniziative stanno costruendo la società e la Chiesa nelle aree remote del nostro pianeta.

Il teologo Philip Goyret approfondisce anche l'eterno dibattito sul sacerdozio femminile per completare questo dossier sulle donne nella Chiesa.

La Giornata mondiale dei bambini e il Papa a Pasqua

La celebrazione della prima Giornata Mondiale del Bambino, indetta da Papa Francesco per il 25 e 26 maggio, è l'epicentro dell'articolo scritto da Roma dal nostro redattore, Giovanni Tridente, autore di un'interessante intervista a Fay Enzo Fortunato, che, insieme a un team di collaboratori, sta coordinando l'organizzazione di questa giornata. Il religioso sottolinea che questa prima giornata sarà "un'esperienza formativa per i bambini e i loro accompagnatori, e una giornata storica per la Chiesa". Uno degli eventi più significativi sarà senza dubbio il dialogo dei bambini con Papa Francesco nello Stadio Olimpico e, il giorno successivo, la Santa Messa in San Pietro officiata dal Santo Padre.

Gli insegnamenti del Papa di questo mese si concentrano sulle parole del Papa che, durante il mese di aprile, hanno ruotato intorno alle letture del periodo pasquale e si sono concentrate sulla compassione per i più poveri e vulnerabili o per le persone con disabilità.

Vietnam

La Chiesa in Vietnam apre la sezione mondiale di questa rivista. Una Chiesa segnata dal martirio - fin dalle origini e ancora oggi - e, allo stesso tempo, dalla fede salda dei cattolici vietnamiti e dalla loro attenzione a mantenere viva l'eredità di tante persone che hanno dato la vita per la fede.

La fede nell'Università e il Forum Omnes

La fede nell'università è il tema che Juan Luis Lorda affronta in Teologia nel XX secolo. Un rapporto intrinseco che non si è inaridito, dal momento che, come sottolinea l'autore, oggi la teologia svolge un ruolo molto importante nell'università, con la quale è nata.

Gerolamo Leal, da parte sua, propone la lettera che papa Clemente I scrisse ai cristiani di Corinto per placare la rivolta di alcuni giovani contro i presbiteri o gli anziani della comunità. Un documento interessante che contiene elogi per i Corinzi e avverte della gravità della divisione e dell'invidia.

Il Forum Omnes, tenutosi in collaborazione con il Master di Formazione Permanente in Diritto Matrimoniale e Procedura Canonica della Facoltà di Diritto Canonico dell'Università di Navarra il 15 aprile, è al centro del reportage di questa rivista sulle Ragioni.

In questo numero, Omnes presenta anche un'interessante riflessione di José Ramón Amor-Pan, direttore accademico della Fondazione Paolo VI, sull'ultimo documento del Dicastero per la Dottrina della Fede, Dignitas Infinita.

Il contenuto del rivista per il mese di aprile 2024 è disponibile in versione digitale (pdf) per gli abbonati alle versioni digitale e cartacea.

Nei prossimi giorni verrà recapitato anche all'indirizzo abituale di coloro che hanno il abbonamento stampato.

Mondo

Il Cardinale Pizzaballa: "Guardare il volto di Dio e dell'altro per costruire la pace"

Il 2 maggio, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, ha tenuto una conferenza alla Pontificia Università Lateranense in cui ha chiesto la pace in Terra Santa.

Giovanni Tridente-3 maggio 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

Il giorno dopo aver preso possesso della parrocchia di Sant'Onofrio a Roma, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemmeè stato invitato a tenere una Lectio magistralis alla Pontificia Università LateranenseL'evento faceva parte del corso di studi in Scienze della Pace e Cooperazione Internazionale dell'Istituto Pastorale Redemptor Hominis.

Tragedia senza precedenti

Un grido di dolore e un appello per la pace di fronte alla tragica situazione che sta dilaniando la Terra Santa si è potuto percepire sin dalle prime battute del suo intervento. “Quanto sta avvenendo è una tragedia senza precedenti”, ha esordito. “Oltre alla gravità del contesto militare e politico, sempre più deteriorato, si sta deteriorando anche il contesto religioso e sociale. Un panorama desolante”.

Di fronte a questa crisi profonda, che vede disgregati persino i pochi contesti di convivenza interreligiosa, il Patriarca ha richiamato la Chiesa a rifondare la sua azione di pace su due pilastri evangelici fondamentali.

Guardare il volto di Dio

Il primo è “guardare il volto di Dio”, poiché la pace prima di essere un progetto umano “è un dono di Dio, anzi, dice qualcosa di Dio stesso”. Citando il celebre discorso di Paolo VI alle Nazioni Unite il 4 ottobre 1965, Pizzaballa ha ribadito che “l’edificio della moderna civiltà deve reggersi su principi spirituali, capaci non solo di sostenerlo ma di illuminarlo e animarlo. E perché tali siano questi indispensabili principi, essi non possono non fondarsi sulla fede in Dio”.

Guardare il volto dell’altro

Il secondo pilastro è “guardare il volto dell’altro”. Come ha spiegato il Patriarca, “la pace, anche a livello antropologico, non è solo convenzione sociale o assenza di guerra, ma si fonda sulla verità della persona umana”. Solo nel contesto di uno sviluppo integrale dell’uomo e nel rispetto dei suoi diritti “può nascere una vera cultura della pace”. Facendo riferimento al filosofo Lévinas, ha insistito che “nel volto dell’Altro si gioca l’assoluto” e che “il mondo è mio nella misura in cui posso condividerlo con l’Altro”.

Di fronte al deterioramento della situazione e all'inerzia delle istituzioni internazionali, “sempre più deboli” e impotenti, il Patriarca ha evidenziato anche la mancanza di leadership locale capace di realizzare gesti che costruiscano fiducia e di fare “scelte coraggiose di pace”. Ha però avvertito la Chiesa e tutti i soggetti pastorali a vari livelli a non cedere alla “tentazione di colmare il vuoto lasciato dalla politica” entrando in dinamiche di negoziazione che non le appartengono.

Unico riferimento è il Vangelo

Il compito della Chiesa, ha ribadito con forza, è “rimanere sé stessa, comunità di fede” il cui unico “riferimento è il Vangelo”. La sua missione è "creare nella comunità il desiderio, la disposizione e l’impegno sincero di incontro con l’altro, nel saperlo amare nonostante tutto”. Un cammino che passa attraverso “l’ascolto della Parola di Dio” e la testimonianza del mistero pasquale di Cristo, “l’unico che ha abbattuto la barriera tra gli uomini, il muro d’inimicizia”.

L'autoreGiovanni Tridente

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Iniziative

Preghiera del Santo Rosario dal santuario di Loreto

Ogni giorno a mezzogiorno il Santo Rosario può essere recitato con i fedeli che si recano al Santuario della Santa Casa di Loreto, in Italia.

Paloma López Campos-3 maggio 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

Con l'inizio del mese di maggio, è consuetudine per i cattolici pregare con maggiore frequenza il Santo Rosariouna preghiera tradizionale dedicata alla Vergine Maria. Alcuni la recitano da soli, altri con la famiglia o con gli amici, ma può essere recitata anche accompagnati dai fedeli che si recano al Santuario della Santa Casa di Loreto, in Italia.

Ogni giorno a mezzogiorno vengono trasmessi in diretta l'Angelus (o Regina Caeli) e il Santo Rosario. Chiunque può partecipare alla pratica di questa devozione tramite YouTube, la radio o il sito web di Vatican News.

La staffetta per unirsi alla preghiera del Rosario a Loreto è iniziata nel pieno della pandemia COVID-19, il 6 aprile 2020. Come riportato all'epoca Notizie dal VaticanoFabio Dal Cin, arcivescovo delegato pontificio, ha spiegato che "la Santa Casa di Loreto ci invita a invocare Maria, per non perdere la speranza nel Dio della vita".

Perché a Loreto?

Il Santuario della Santa Casa di Loreto è un luogo speciale per i cattolici. Secondo la tradizione, qui è conservata la casa in cui la Vergine Maria ricevette l'arcangelo Gabriele al momento dell'Incarnazione.

Questa piccola casa in Terra Santa cominciò a essere in pericolo al tempo delle Crociate. Fu allora che un membro della famiglia Angeli finanziò il trasferimento, pezzo per pezzo, della casa di Santa Maria. All'inizio la casa si trovava in Croazia, fino al 1294, quando decisero di trasferirla a Loreto, in Italia.

Questa prima casa della Sacra Famiglia ha un significato speciale per i cattolici. Non sorprende quindi che unirsi alla preghiera del Santo Rosario a Loreto sia un buon modo per avvicinarsi alla Vergine Maria.

Facendo clic su QUI è possibile accedere al canale YouTube dove si può assistere in diretta alla recita del Santo Rosario e dell'Angelus o Regina Caeli a Loreto. La domenica è consuetudine unirsi a Papa Francesco, che prega dalla sua finestra a mezzogiorno con tutti i fedeli che si uniscono alla trasmissione o che si trovano in Piazza San Pietro.

Facciata della Basilica della Santa Casa di Loreto (Wikimedia Commons / Termauri)
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Mondo

La Turchia: un vicino scomodo. Terza parte

Con questo articolo, lo storico Gerardo Ferrara conclude una serie di tre studi in cui approfondisce la cultura, la storia e la religione della Turchia.

Gerardo Ferrara-3 maggio 2024-Tempo di lettura: 7 minuti

In un precedente articolo parliamo del Medz Yeghern (armeno: "grande male"), il primo genocidio del XX secolo, una serie di brutali campagne condotte contro l'etnia armena, prima dal sultano Abdülhamid II tra il 1894 e il 1896, poi dal governo dei Giovani Turchi tra il 1915 e il 1916, che portarono alla morte di circa 1,5 milioni dei due milioni di armeni che vivevano nei territori della Sublime Porta.

In un precedente articolo abbiamo parlato del Medz Yeghern (in lingua armena: grande male), il primo genocidio del XX secolo, una serie di brutali campagne condotte contro i cittadini turco/ottomani di etnia armena prima da parte del sultano Abdülhamid II, tra il 1894 ed il 1896, e poi dal governo Giovani Turchi, tra il 1915 e il 1916, che portarono alla morte di circa un milione e mezzo dei due milioni di armeni che vivevano nei territori della Sublime porta.

Nonostante gli storici di tutto il mondo concordino sull’atrocità e i numeri di questo genocidio, la Turchia si rifiuta di riconoscerlo ed è ancora grande il rischio che corrono gli intellettuali turchi che osano parlarne in patria. Persino il premio Nobel per la letteratura nel 2006, Orhan Pamuk, della Turchia, è stato accusato di “vilipendio dell’identità nazionale turca” secondo l’articolo 301 del Codice Penale turco che riguarda la libertà di espressione (o, in questo caso, la mancanza di libertà di espressione), come chiunque osi parlarne. Lo stesso era avvenuto a Hrant Dink, giornalista turco di origine armena già condannato nel 2005 a sei mesi di reclusione per suoi articoli sul Genocidio armeno. Dink, più volte minacciato di morte, fu infine ucciso nel 2007 mentre usciva dalla redazione del suo giornale Agos (il processo al suo assassino portò alla luce tutta una serie di legami occulti tra lo Stato, i servizi segreti e gruppi ultranazionalisti in un’organizzazione segreta chiamata Ergenekon che sarebbe stata legata anche all’omicidio di don Andrea Santoro del 2006).

Altra questione rovente e irrisolta è quella dei curdi, popolo di lingua indoeuropea (la lingua curda è molto vicina al persiano), che vive tra l’Anatolia orientale, l’Iran occidentale, il nord dell’Iraq, la Siria, l’Armenia ed altre zone adiacenti, un’area generalmente conosciuta come Kurdistan. Si stima che i curdi siano oggi tra i 30 e i 40 milioni.

Popolo in origine nomade, i curdi divennero stanziali dopo la Prima guerra mondiale (furono indotti dai Giovani Turchi a partecipare ai genocidi armeno, greco e assiro e stanziarsi proprio sulle proprietà dei deportati e degli uccisi), quando i trattati internazionali posero delle frontiere all’interno del vasto territorio nel quale essi si erano mossi liberamente fino ad allora per consentire le migrazioni stagionali delle greggi. Nonostante il Trattato di Sèvres, redatto nel 1920 e mai ratificato, prevedesse la creazione di un Kurdistan indipendente, il successivo Trattato di Losanna (1923) non tornò a menzionare l’argomento e la patria storica dei curdi si presenta tuttora divisa tra vari Stati, contro i quali sono sorti nel tempo diversi movimenti separatisti curdi.

I cittadini turchi di etnia curda sono stati sempre discriminati dai governi di Ankara, che hanno cercato di privarli della loro identità culturale designandoli come “turchi di montagna”, bandendo la loro lingua (a volte definita un semplice dialetto turco) e vietando loro di indossare abiti tradizionali. Le varie amministrazioni turche hanno anche soppresso – il più delle volte violentemente – ogni spinta autonomista nelle province orientali (continuano, ad esempio, a intervenire escludendo i candidati esponenti di partiti curdi alle elezioni amministrative, comprese le ultime di marzo 2024), incoraggiando altresì la migrazione dei curdi verso la parte occidentale e urbanizzata del Paese, in modo da consentire una diminuzione della concentrazione di questa popolazione nelle regioni montane e rurali.

Nel corso del XX secolo, si sono verificati diversi episodi di insubordinazione e ribellione da parte della popolazione curda e, nel 1978, Abdullah Öcalan costituì il Kurdistan Workers Party (Partito dei Lavoratori Curdi, conosciuto con il suo acronimo curdo, PKK), un partito di ispirazione marxista il cui obiettivo dichiarato è la creazione di un Kurdistan indipendente.

Dalla fine degli anni ‘80, i militanti del PKK, attivi principalmente in Anatolia orientale, sono costantemente impegnati in operazioni di guerriglia contro il governo centrale ed in frequenti atti di terrorismo.

Gli attacchi del PKK e le rappresaglie del governo si intensificarono negli anni ‘80 fino a scatenare una vera e propria guerra civile nella Turchia orientale. Dopo la cattura del leader Ocalan nel 1999, le attività del PKK si sono drasticamente ridotte.

Dal 2002, per via delle pressioni da parte dell’Unione europea, Ankara ha autorizzato l’utilizzo della lingua curda nelle trasmissioni televisive e nell’insegnamento. Tuttavia, la Turchia continua a condurre operazioni militari contro il PKK, comprese delle incursioni nel nord dell’Iraq, fino ad oggi.

I greci anatolici

Prima della Prima guerra mondiale, i greci erano una fiorente comunità in Asia Minore, una terra che avevano abitato fin dai tempi di Omero. Si stima che fossero circa 2,5 milioni, con almeno 2.000 chiese greco-ortodosse, specialmente a Costantinopoli, lungo la costa egea (in particolare a Smirne) e nel Ponto (regione settentrionale dell’Anatolia lungo la costa del Mar Nero la cui capitale, Trebisonda, fu il centro dell’Impero omonimo, con a capo la dinastia dei Comneni, l’ultimo a cadere sotto il dominio degli ottomani).

L’ascesa del nazionalismo turco all’inizio del XX secolo acuì il sentimento anti-greco già strisciante nell’Impero Ottomano, tanto che il regime dei Giovani Turchi, guidato dai Tre Pascià (i massoni Ismail Enver, Ahmed Jemal e Mehmed Talat) ordì, e nella fattispecie ne fu Enver il principale responsabile, i tre grandi genocidi (armeno, assiro e greco) proprio per “ripulire” l’Impero da tutte le minoranze cristiane. Enver, già responsabile del massacro degli armeni, dichiarò all’ambasciatore britannico sir Henry Morgenthau di prendersi tutta la responsabilità di milioni di morti cristiani.

Per quanto riguarda i greci, la catastrofe assunse la forma di un aperto genocidio nel Ponto tra il 1914 e il 1923, quando la popolazione greca locale fu massacrata o deportata, con marce forzate, nelle regioni interne dell'Anatolia e della Siria (un evento raccontato in un bel libro scritto dalla figlia di una delle vittime: "...").Nemmeno il mio nome"di Thea Halo"). Si stima che almeno 350.000 greci, circa la metà della popolazione, siano morti, mentre i sopravvissuti furono deportati.

In Asia Minore, invece, si verificò quella che è conosciuta dagli storici greci come “Catastrofe dell’Asia Minore”, una serie di eventi che portò all’abbandono definitivo della regione da parte della quasi totalità della popolazione greca che aveva vissuto, prosperato e abitato la Ionia fin dall’XI sec. a.C. Tali eventi sono anzitutto la sconfitta della Grecia nella Guerra greco-turca (1919-1922), con i massacri che ne seguirono, e l’incendio e della grande città di Smirne (1922) in cui perirono tra le fiamme, o gettandosi in mare, circa 30 mila greci e armeni cristiani, mentre in 250 mila lasciarono definitivamente la città distrutta.

La conseguenza di ciò fu lo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia, sancito dal Trattato di Losanna del 1923 che, di fatto, ripristinava le relazioni diplomatiche tra le due nazioni: da un milione e mezzo a tre milioni di greci furono costretti ad abbandonare il territorio turco per insediarsi in Grecia (secondo un censimento greco del 1928 si erano insediati solamente in Grecia 1.221.849 profughi su un totale di 6.204.684 abitanti, il 20% della popolazione del Paese!), mentre dai 300 mila ai 500 turchi lasciarono la Grecia per insediarsi in Turchia.

Gli ebrei in Turchia

Prima del 1492, data dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna e dal Portogallo, vi era in Turchia una comunità ebraica conosciuta come romaniota, perché di cultura mista greco-ebraica. Gli ebrei che giunsero dalla penisola iberica contribuirono enormemente al miglioramento della situazione economica e culturale della comunità intera.

A differenza dei cristiani, nel 1908, la comunità ebraica in Turchia sembrò conoscere un miglioramento della propria condizione con la rivoluzione dei Giovani Turchi ma va detto che, almeno fino al 1923, anno della proclamazione della Repubblica turca, solo pochissimi cittadini di fede israelitica, nonostante i secoli di permanenza nell’Impero ottomano dopo l’esilio dalla Spagna, conoscevano la lingua turca, avendo continuato a parlare orgogliosamente la loro lingua madre, il giudeo-spagnolo, parlato ancora oggi da poche persone.

Tra alti e bassi, fino alla proclamazione dello Stato d’Israele, la comunità ebraica di Turchia ha continuato a rimanere nel Paese fino all’emigrazione di massa, che vide circa 33 mila ebrei turchi trasferirsi nel neonato Stato ebraico solo tra il 1948 e il 1952, per la crescente instabilità della sua condizione ma ancor più per le aspettative di vita nel nuovo Paese. Oggi, dei circa 100 mila ebrei presenti in Turchia nel XIX secolo, ne rimangono circa 26.000 (la seconda più grande comunità ebraica in un paese musulmano dopo l’Iran), concentrati per lo più a Istanbul.

La minoranza cristiana in Turchia

È ben nota l’importanza dell’Anatolia per il cristianesimo. Qui, infatti, a Tarso, nacque San Paolo; qui si tennero i primi sette Concili ecumenici della Chiesa; qui, tradizionalmente, Maria, madre di Gesù, visse gli ultimi anni della sua vita (a Efeso, ove è stata rinvenuta quella che per molti è la casa in cui abitò con il discepolo Giovanni).

Tuttavia, se prima della caduta dell’Impero ottomano solamente a Costantinopoli i cristiani erano circa la metà della popolazione, e il 16,6% in Anatolia, oggi se ne contano solamente 120 mila (lo 0,2%), un calo drammatico più che in qualunque altro Paese islamico, soprattutto a causa dei genocidi armeno, greco e assiro, delle deportazioni di massa e degli scambi di popolazione tra Grecia e Turchia. Di essi, 50 mila sono armeni apostolici, 21 mila circa cattolici (tra latini, armeni, siri, caldei), solamente 2 mila greci ortodossi, 12 mila siro-ortodossi e 5 mila protestanti.

La vita dei cristiani nel Paese non è sempre facile. Difatti, se, con il Trattato di Losanna (1923) la Turchia si era impegnata formalmente a garantire completa tutela della vita, della libertà e dell’uguaglianza giuridica a tutti i suoi cittadini, indipendentemente dal credo religioso, e “completa protezione alle chiese, le sinagoghe, i cimiteri ed altre istituzioni religiose delle minoranze non musulmane” (art. 42, par. 3, riga 1), di fatto non ha riconosciuto alcuno statuto alle proprie minoranze religiose che non siano quella armena, quella bulgara, quella greco-ortodossa e quella ebraica (queste ultime considerate, tuttavia, solamente “confessioni ammesse”). Di conseguenza, non è consentito alle comunità religiose non islamiche possedere beni né acquistarli (solamente mantenere chiese, sinagoghe, monasteri e seminari già esistenti e in uso nel 1923, ma di fatto molti beni sono stati confiscati e nazionalizzati dallo Stato turco). Essendo poi il regime delle millet stato abolito, non è più consentito ai capi religiosi di rappresentare le rispettive comunità (fino al 2011 non si è avuto in Turchia neppure un parlamentare cristiano).

Oggi si parla di una crescente “cristianofobia” in Turchia, dato un numero crescente di musulmani che chiede di essere battezzato in qualche Chiesa cristiana (numero in realtà alquanto esiguo, almeno ufficialmente), in un Paese in cui l’islamismo, il nazionalismo o entrambi sono sempre più in voga.

L'autoreGerardo Ferrara

Scrittore, storico ed esperto di storia, politica e cultura del Medio Oriente.

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Spagna, una famiglia normale?

Attualmente ci troviamo di fronte a una società spagnola piuttosto disperata, come indicano i nostri indici di salute mentale, e polarizzata in due metà molto mal assortite.

2 Maggio 2024-Tempo di lettura: 5 minuti

Qualche tempo fa ho sentito una madre ridere quando mi ha detto che il figlio adolescente le diceva di tanto in tanto che avrebbe voluto che fossero una "famiglia normale". Con questo intendeva dire che avrebbe voluto poter entrare in casa quando voleva nel fine settimana, utilizzare il mobile e cose del genere, tipiche della sua età. Questo mi ha portato a pensare che queste "famiglie normali", come le immaginava il ragazzo, non esistono. In tutte ci sono, in misura maggiore o minore, problemi, gioie, dolori, errori, successi, grandezza, cattiveria, diversità di caratteri, temperamenti, situazioni di vita, crisi, ecc.

Pensare a questa figura mi ha portato a una visione della Spagna come una grande famiglia, ma non una famiglia utopica, bensì una famiglia reale: con la sua storia, con i suoi successi e i suoi errori, con la sua diversità di approcci alla vita, con i suoi santi e i suoi criminali, con le sue miserie e le sue grandezze, e anche con le sue situazioni di vita e le sue crisi. Come le famiglie, se vogliono andare avanti e non saltare in aria e finire a schiaffi in faccia o in tribunale, le persone devono cercare di pensare al bene comune e vedere il positivo negli altri, riconoscere i propri errori e correggere quelli degli altri con affetto e al momento giusto.

La Spagna ha una lunga storia che si spinge nelle profondità del tempo dove c'è stato di tutto: questa famiglia è stata celtica e iberica, romana, visigota, musulmana, sefardita e mudéjar e, ora monarchica e cattolica, si spinge a ovest, a sud e a est fino all'America e alle Filippine raggiungendo la sua massima influenza, essendo la madre della grande famiglia ispanica. Nel frattempo, a nord e a est, si lottava per l'indipendenza dai vicini francesi (si dice che ciò abbia avvicinato questa famiglia), lasciandoci indipendenti in casa ma non altrettanto nelle idee; e così arrivarono l'Illuminismo e la rivoluzione francese, che qui fu giustamente chiamata "liberale", dai cui echi la famiglia divenne repubblica, in due esperienze di breve durata, con il loro tentativo di "modernizzare la Spagna", intervallate dalle dittature di Primo de Rivera e Franco. Questi cambiamenti non sono stati incruenti, gentili o civili, e ci sono state molte guerre interne, quella che ha lasciato il segno più grande sulla famiglia che siamo oggi è la cosiddetta guerra civile.

In pace da allora (senza dimenticare i decenni di terrorismo dell'ETA, anche se non si dimentica l'attuale oblio nei confronti delle sue vittime) e con una transizione che altre famiglie hanno ammirato e ammirano, la famiglia ha vissuto questi ultimi 45 anni di democrazia in cui la cultura e l'educazione sono state progettate dai cosiddetti progressisti, con le brevi parentesi dei governi dei cosiddetti conservatori, questi ultimi dediti più che altro all'economia familiare e assumendo in pratica la leadership culturale di chi si sedeva a mangiare a sinistra alla tavola comune.

Penso che tutti gli spagnoli potrebbero provare a fare, oggi e in futuro, un esercizio come quello che ho raccomandato all'inizio ai membri di qualsiasi famiglia, cercando di riconoscere i nostri errori e quelli degli altri, e cercando di correggerli allo stesso modo, vedendo il positivo negli altri e cercando di cercare il bene comune.

Farò un tentativo (non senza rischi e senza voler essere esaustivo):

Possiamo riconoscere che nei secoli della monarchia cattolica ci sono stati grandi successi ed errori. Tra i successi, vorrei sottolineare l'espansione del cristianesimo e della visione della dignità umana propria di questa religione in tutto il mondo, così come la creazione dell'università, delle cattedrali e di tante meraviglie artistiche, la trasmissione della cultura attraverso i codici, le opere di misericordia, ecc. Tra gli errori, chiaramente la commistione tra politica e religione, la persecuzione e l'eliminazione dei dissidenti e degli eterodossi, le guerre per motivi religiosi, il clericalismo, la copertura degli abusi per preservare il prestigio dell'istituzione, ecc.

Nel progressismo liberale, tra i successi posso vedere nobili desideri di giustizia sociale e di uguaglianza e un sano laicismo. Tra gli errori, la convinzione che il fine giustifichi i mezzi, la persecuzione religiosa della Seconda Repubblica e la guerra civile, la consacrazione del diritto all'aborto per migliaia di nascituri, il suicidio tramite eutanasia per i malati gravi e incurabili, la cosiddetta autodeterminazione di genere (che sta causando tanti danni irreversibili a giovani e adolescenti), il continuo declino della qualità e delle esigenze della nostra istruzione, la convivenza e persino la complicità con terroristi di epoche diverse, la colonizzazione delle istituzioni pubbliche, il settarismo ideologico, lo sperpero del denaro di tutti, ecc.

Per quanto riguarda i liberalconservatori, tra i successi penso che abbiano gestito l'economia in modo più austero e abbiano capito meglio che le entrate devono essere bilanciate con le uscite per la sostenibilità del sistema, e che dopo la Costituzione siano stati più rispettosi della libertà religiosa dei cittadini, oltre a credere di più nello Stato di diritto e nella legge. Tra gli errori, lasciandosi alle spalle i 36 anni di Franco (con le sue esecuzioni, gli esili del dopoguerra e la persecuzione dei dissidenti), credo che fondamentalmente non siano stati abbastanza fermi nel difendere le loro giuste convinzioni (la difesa della vita dei nascituri e dei malati terminali, la qualità dell'istruzione, l'uguaglianza degli spagnoli senza privilegi regionali o economici, ecc.)

Tra i nazionalisti, vedo tra i loro successi la difesa della propria lingua e cultura. Tra i loro errori, ovviamente la simpatia o l'equidistanza nei confronti del terrorismo dell'ETA e la mancanza di collaborazione e sensibilità nei confronti delle vittime innocenti (tutte) di tanti anni di assassinii, sequestri ed estorsioni, l'insistenza sul fatto che gli ex assassini abbiano il diritto di partecipare alla vita politica del loro popolo (cosa diversa dal reinserimento), la loro errata convinzione di essere superiori al resto della Spagna e del mondo, l'ottenimento di privilegi ingiusti da parte dei diversi governi centrali (colpa condivisa da conservatori e progressisti, ovviamente), ecc. Potremmo anche includere il nazionalismo spagnolo in ciò che condivide con l'esclusione delle virtù di altri Paesi.

Nella Chiesa, accanto all'immenso bene che è stato fatto in tanti secoli da tanti pastori e fedeli laici, da tante istituzioni religiose, dobbiamo riconoscere gli abusi e talvolta un uso carente del grande potenziale educativo di tante scuole e università della Chiesa che non hanno saputo o non sono state in grado di trasmettere pienamente ai loro studenti una vera formazione cristiana con la capacità di trasformare in meglio la società.

Potremmo continuare con i re, i vari governi, gli scrittori, gli artisti, i vescovi e tutti coloro che fanno parte o hanno fatto parte di questa "normale" famiglia che è la Spagna. Ma mi sembra che questo breve riassunto sia sufficiente per lo scopo di questo modesto articolo.

E ora ci troviamo nel presente, con una società spagnola piuttosto disperata, come indicano i nostri indici di salute mentale, soprattutto tra i giovani (e questo non è dovuto solo alla pandemia ma a un problema culturale più fondamentale, mi sembra) e ancora una volta polarizzata in due metà molto mal assortite.

Forse potremmo cercare di vederci più come una vera grande famiglia, con i suoi problemi e i suoi momenti felici e difficili, riconoscere i nostri errori e cercare di vedere le virtù degli altri. Potremmo cercare di allearci con tutte le persone oneste e di tutte le ideologie per lavorare insieme a una Spagna migliore da lasciare ai nostri successori, che non sembrano troppo contenti del Paese che stiamo lasciando loro. Non si tratta di fare leggi di memoria, ma di vera concordia.

Penso a Sant'Agostino quando, nel suo attualissimo "La città di Dio", diceva che "tra i pagani ci sono i figli della Chiesa e all'interno della Chiesa ci sono i falsi cristiani". Non importa quali etichette diamo a noi stessi o agli altri. Ciò che conta è l'unione di tutte le persone oneste che vivono in Spagna e vogliono renderla davvero migliore per tutti. Non dobbiamo mai stancarci di fare il bene e di combattere il male, in noi stessi e nella nostra società. Dobbiamo allearci con tutti coloro che continuano a credere che il pluralismo sia salutare finché condividiamo un minimo etico comune: non possiamo uccidere, mentire o rubare.

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Mondo

Il cardinale Bechara Boutros Rai: "La Chiesa soffre accanto al popolo libanese".

Il Patriarca maronita di Antiochia e d'Oriente è la figura cristiana più importante del Libano e svolge un ruolo centrale nella vita pubblica della società. Omnes ha intervistato il cardinale Bechara Boutros Rai in un periodo difficile ma fondamentale della sua storia attuale.

Bernard Larraín-2 Maggio 2024-Tempo di lettura: 7 minuti

Ponte tra Oriente e Occidente, tra Islam e Cristianesimo, il Libano è un Paese che riconosce 18 comunità religiose nel suo piccolo territorio, tra le montagne e il Mediterraneo.

In questo mosaico di fedi, la Chiesa maronita ha svolto un ruolo di primo piano. Da sempre uniti al Papa, il Vescovo di Roma, i cristiani maroniti sono cattolici di rito orientale e rappresentano la più grande e influente comunità cattolica del Medio Oriente. Alla loro testa c'è il Patriarca maronita di Antiochia e di tutto l'Oriente. È la figura cristiana più importante del Paese e svolge un ruolo centrale nella vita pubblica della società. 

Dal 2011, il Patriarca maronita è Sua Beatitudine Bechara Boutros Rai. Nato nel 1940, monsignor Rai è un religioso dell'ordine mariamita, ordinato sacerdote nel 1967, consacrato vescovo nel 1986 ed eletto patriarca nel 2011. Nel 2012, Papa Benedetto XVI lo ha nominato cardinale della Chiesa.

La sua leadership alla guida dei maroniti è stata caratterizzata da posizioni forti sull'identità e l'unità del Libano e sulla neutralità nelle relazioni internazionali. 

Per il suo posto speciale nella storia dell'umanità e della religione cristiana in particolare, i Papi hanno sentito il Libano come un Paese molto presente nelle loro preghiere e preoccupazioni. Joaquín Navarro-Valls, storico portavoce, consigliere diplomatico e amico di Papa Giovanni Paolo II, racconta nelle sue memorie come il Papa polacco abbia tenuto la testa e il cuore in Libano. Paese dei cedri durante i terribili anni della guerra civile, che ha visto anche scontri tra gruppi cristiani.

È stato San Giovanni Paolo II a dare al Libano il nome di "Paese del messaggio". Papa Benedetto XVI ha compiuto una visita storica nel 2012 e Papa Francesco ha espresso la volontà di visitare il popolo libanese e cita spesso il Libano nei suoi discorsi e nelle sue preghiere. 

Per decenni il Libano ha vissuto un periodo di grande sviluppo culturale ed economico che gli è valso il soprannome di "Svizzera del Medio Oriente", ma da diversi anni è impantanato in una crisi politica, sociale ed economica senza precedenti.

Questa delicata situazione è stata aggravata dalla guerra nella parte meridionale del territorio: dal 7 ottobre 2023, con l'inizio del conflitto in Palestina, sono riprese le ostilità nel sud del Libano tra le milizie di Hezbollah e Israele. 

In questo contesto, i cristiani del Libano giocano un ruolo molto particolare e il Patriarca Rai non ha smesso di alzare la voce, richiamando con forza l'identità libanese. 

Situata a 25 chilometri a nord di Beirut, sulle montagne libanesi, Bkerke è la sede del Patriarcato maronita dal 1823. In questo luogo storico con un'incredibile vista sul Mediterraneo, ci accoglie Sua Beatitudine Bechara Boutros Rai. Non è la prima volta che ospita Omnes, poiché nel 2017 l'allora rivista Palabra pubblicò un'intervista a Sua Beatitudine. 

Il Libano sta attraversando una crisi molto grave: da oltre un anno non è stato nominato un Presidente della Repubblica, l'inflazione ha raggiunto livelli senza precedenti, mancano i servizi di base e, dal 7 ottobre 2023, nel sud del Paese si minaccia la guerra. Qual è la sua diagnosi della situazione?

-Purtroppo il nostro Paese è malato perché ha perso il senso della sua missione nel mondo. Giovanni Paolo II diceva che il Libano è più di un Paese, è un "messaggio", e questa è la sua missione: mostrare al mondo che cristiani e musulmani possono e devono vivere insieme, come fratelli. L'identità del nostro Paese è così particolare che un leader di un Paese arabo ha detto "se il Libano non esistesse, bisognerebbe crearlo". 

Esistono due principi importanti dell'identità libanese: il principio della separazione tra Stato e Chiesa e quello della molteplicità culturale. 

Dal primo principio consegue il principio di cittadinanza: si è libanesi non per religione o etnia, ma attraverso questo principio: se si è cittadini, allora si è libanesi. Ciò implica che non si è cristiani, musulmani o drusi, e quindi si ha accesso alla cittadinanza. Questo principio è stato sancito fin dalla creazione dello Stato del Grande Libano, nel 1920, ed è essenziale perché permette a cristiani e musulmani di vivere in pace, senza temere che altri impongano la loro religione nella vita politica. 

Il cardinale Bechara Boutros Rai: "La Chiesa soffre accanto al popolo libanese".
Il cardinale Bechara Boutros Rai con il corrispondente di Omnes Bernard Garcia Larrain

Questo principio si è concretizzato nel 1943 con la firma del cosiddetto Patto nazionale in cui i poteri dello Stato erano divisi in base alle diverse confessioni. L'idea era quella di dare garanzie concrete a ciascun gruppo.

Così, il Presidente della Repubblica deve essere un cristiano maronita, il capo del governo (primo ministro) è un musulmano sunnita e il Presidente della Camera dei Deputati è un musulmano sciita. Questo sistema è stato confermato dagli Accordi di Taëf, che hanno posto fine alla guerra civile degli anni Novanta. 

Il secondo principio è quello della molteplicità culturale: il Libano è un Paese democratico e aperto al mondo, dove convivono diverse sensibilità culturali e dove si privilegiano il dialogo e la neutralità nelle relazioni internazionali. 

Oggi il nostro Paese è malato perché al suo interno ci sono gruppi che ne hanno deformato la fisionomia e non rispettano questi principi fondamentali. Non sono fedeli al Libano. Non rispettano la sua neutralità. Oggi abbiamo una guerra nel sud del nostro Paese, una guerra che i libanesi non vogliono, ma che alcuni gruppi sono determinati a provocare. Questo ha reso il nostro Paese isolato dal resto del mondo. 

Cosa sta facendo la Chiesa per cercare di porre rimedio a questa situazione?

-La Chiesa soffre insieme al popolo libanese, che in questa crisi sta perdendo forza ed elementi dinamici: non solo molti giovani lasciano un Paese che non vedono con ottimismo, ma anche molti professionisti, già formati e integrati nella vita economica e sociale, hanno trovato o stanno cercando un futuro migliore all'estero. La perdita è immensa. 

La nostra popolazione si è estremamente impoverita. L'inflazione è una delle più alte del mondo. Di fronte a questo dramma, la Chiesa apre le sue porte a tutti: le nostre scuole, le università, i centri sociali (che aiutano le persone a trovare lavoro) rimangono aperti e attivi, anche se spesso la gente non può permetterseli. 

I beni della Chiesa sono a disposizione della nostra gente e migliaia di persone beneficiano dei vari aiuti. Cerchiamo di creare opportunità di lavoro per tutti. Tuttavia, la situazione sta peggiorando ed è per questo che continuo a gridare ai nostri leader attraverso i media: "Siete dei criminali, state distruggendo lo Stato, state impoverendo il nostro popolo!

I libanesi amano la loro terra, la loro cultura e la loro patria. Oggi i libanesi che vivono all'estero, che sono la maggioranza, sostengono economicamente il Paese. E se la situazione permetterà loro di tornare, torneranno, perché amano il Libano. 

Ha speranza per il futuro del Paese? 

-Siamo cristiani e abbiamo speranza. Altrimenti non saremmo cristiani e non saremmo qui, dove siamo da molti secoli. 

Il sistema politico libanese è unico al mondo nel senso che la rappresentanza politica e le alte cariche sono distribuite su base religiosa. C'è chi sostiene che questo sistema sia giunto al capolinea e che sia giunto il momento di cambiarlo, di riformare la Costituzione. Lei cosa ne pensa? 

-Il nostro sistema politico, incarnato dalla nostra Costituzione, è magnifico e unico al mondo. Il problema non è il sistema, ma il fatto che alcuni non lo rispettano. Mi piace paragonarlo a un matrimonio: un'unione unica tra cristiani e musulmani. 

Il Libano non può essere solo cristiano o solo musulmano, non sarebbe il Libano. Un divorzio, come alcuni vorrebbero imporre, sarebbe fatale. Questo, ovviamente, genera tensioni e disordini. 

Come definirebbe il suo compito di Patriarca maronita nella società libanese? 

-I Patriarchi maroniti hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia del Libano: sono stati loro a guidare la creazione dello Stato del Libano nel 1920, un processo in cui il Patriarca Elias Hoyek ha avuto un ruolo di primo piano. 

Il Patriarca maronita è un punto di riferimento nel nostro Paese, un'autorità ascoltata e apprezzata, per il significato storico che ha avuto. L'articolo 9 della Costituzione libanese stabilisce il principio dello status personale, che rispetta non solo la cosiddetta legge naturale, ma anche le convinzioni di ogni individuo in questo Paese. 

La nostra voce non è quella di una politica tecnica, ma quella di ricordare i principi morali che dovrebbero guidarci. In Occidente, purtroppo, governiamo senza tener conto di Dio, e così abbiamo leggi sull'aborto, sull'eutanasia e sulle unioni omosessuali. 

La Chiesa è indipendente dai partiti politici e parla alla coscienza del popolo. Per queste ragioni non ho smesso di denunciare il crimine di non aver eletto un Presidente per il nostro Paese e di aver mantenuto la situazione attuale che genera l'impoverimento del nostro popolo. 

Ci sono priorità o sensibilità diverse rispetto alla Chiesa latina? Recentemente i vescovi africani hanno dichiarato che non avrebbero attuato il documento Fiducia Supplicans che permette ai sacerdoti di benedire, al di fuori di qualsiasi forma liturgica, le coppie in situazione irregolare. 

-Innanzitutto, dobbiamo ricordare che nella Chiesa cattolica esiste la libertà di espressione; è un diritto che la Chiesa difende e promuove. 

Per quanto riguarda il documento Fiducia SupplicansMi sembra che in Europa ci siano situazioni che non si presentano a noi nello stesso modo.

I vescovi del Libano lavorano collegialmente, ci riuniamo il primo mercoledì di ogni mese. Abbiamo quindi deciso di istituire un comitato di vescovi per studiare il documento e, a seconda di ciò che questo gruppo di lavoro consiglierà, decideremo se è necessario emettere un documento ufficiale da parte nostra. 

San Charbel, il principale santo libanese, è conosciuto in tutto il mondo e riconosciuto per i suoi numerosi miracoli. Il 19 gennaio è stata installata una sua immagine in Vaticano. Perché, secondo lei, la devozione a San Charbel si è diffusa così tanto? 

-In effetti, San Charbel è molto attivo e molto conosciuto, e la risposta alla sua domanda non si può spiegare: è un mistero. Forse, da buon libanese, Charbel sa negoziare molto bene con Dio per ottenere innumerevoli favori per chi lo prega con fede. 

Il mosaico di San Charbel nella Cattedrale di San Patrizio a New York ©CNS photo/Gregory A. Shemitz
L'autoreBernard Larraín

Vangelo

"Amatevi gli uni gli altri". Sesta domenica di Pasqua (B)

Joseph Evans commenta le letture della Domenica di Pasqua VI e Luis Herrera tiene una breve omelia video.

Giuseppe Evans-2 Maggio 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

"Questo vi ordino: che vi amiate gli uni gli altri.". È così che Nostro Signore conclude il bel Vangelo che abbiamo ascoltato oggi, e la seconda lettura di oggi, sempre da San Giovanni, insiste sulla stessa idea: "...".Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio.".

Ma anche la logica di Gesù è preziosa, come scopriamo nel testo evangelico di oggi. Amare gli altri comincia con il sapere che siamo amati da Dio: "...".Come il Padre ha amato me, anch'io ho amato voi.". Inizia anche con la nostra esperienza dell'amore del Padre, attraverso quello del Figlio: "...".Rimani nel mio amore".

L'amore non è solo un sentimento. È fare costantemente la volontà di Cristo e seguire i suoi comandamenti: "...".Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore.". E questo porta alla gioia. La gioia di vivere nell'amore di Cristo dà gioia agli altri quando condividiamo questo amore con loro. "Vi ho detto questo perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.".

L'amore per Cristo comporta non solo amare gli altri, ma anche cercare di amare al livello di Cristo: "...".Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi.". Questo include la disponibilità a sacrificarsi per gli altri, anche fino alla morte, dando la vita per i nostri amici. E dovremmo sforzarci di essere amici di tutti, al meglio delle nostre possibilità.

Infatti, l'amore a cui aspiriamo è l'amore dell'amicizia, che eleva tutti intorno a noi da servi ad amici: "... l'amore a cui aspiriamo è l'amore dell'amicizia, che eleva tutti intorno a noi da servi ad amici: "...".Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; vi chiamo amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi.". Questa amicizia implica la condivisione con gli altri della nostra fede, di tutto ciò che abbiamo imparato dal Padre. Un'amicizia che non comprende la condivisione di Dio con gli altri è solo un'amicizia superficiale.

Potremmo anche dire che il vero amore comporta un "invio", come Cristo invia noi. "Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi e vi ho stabilito che andiate e portiate frutto e che il vostro frutto rimanga.". L'amore dà forza, fa emergere il meglio degli altri e sviluppa le loro qualità e i loro talenti: non si riduce mai alla passività. Il nostro amore deve portare gli altri a portare frutto in Cristo. "Perciò qualsiasi cosa chiederete al Padre nel mio nome, egli ve la darà."Il nostro amore finirà per collegare gli altri a Dio Padre, affinché anche loro possano pregarlo nel nome di Cristo.

Omelia sulle letture della domenica 6 di Pasqua (B)

Il sacerdote Luis Herrera Campo offre il suo nanomiliaUna breve riflessione di un minuto per queste letture domenicali.

Vaticano

"Signore, aumenta la nostra fede", prega il Papa

All'udienza generale di oggi, il Papa ha tenuto una catechesi sulla virtù della fede. Ha inoltre ricordato le vittime delle guerre e delle inondazioni in Kenya.

Loreto Rios-1° maggio 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

Papa Francesco ha proseguito mercoledì la sua catechesi sulle virtù. In questo caso, si è concentrato sulla virtù della fede: "Come la carità e la speranza, questa virtù è chiamata "teologale" perché possiamo viverla solo grazie al dono di Dio. Le tre virtù teologali sono i grandi doni di Dio alla nostra capacità morale. Senza di esse, potremmo essere prudenti, giusti, forti e temperati, ma non avremmo occhi che vedono anche al buio, non avremmo un cuore che ama anche quando non è amato, non avremmo una speranza che osa contro ogni speranza".

Il Santo Padre ha poi definito la fede e ha portato esempi di persone che l'hanno vissuta, a partire dal nostro padre nella fede, Abramo, fino a Mosè e alla Vergine Maria: "In questa fede, Abramo è stato il nostro grande padre. Quando accettò di lasciare la terra dei suoi antenati per andare nella terra che Dio gli avrebbe mostrato, probabilmente fu giudicato pazzo: perché lasciare il conosciuto per l'ignoto, il certo per l'incerto? Ma Abramo si mette in cammino, come se vedesse l'invisibile. Ed è ancora l'invisibile che lo fa salire sul monte con il figlio Isacco, l'unico figlio della promessa, al quale solo all'ultimo momento verrà risparmiato il sacrificio. Con questa fede, Abramo diventa padre di una lunga serie di figli. Anche Mosè è stato un uomo di fede che, accogliendo la voce di Dio anche quando più di un dubbio poteva assalirlo, è rimasto saldo nella fiducia nel Signore, difendendo anche il popolo che spesso mancava di fede. Una donna di fede sarebbe la Vergine Maria, che, ricevendo l'annuncio dell'Angelo, che molti avrebbero liquidato come troppo impegnativo e rischioso, rispose: "Eccomi, sono la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola" (Lc 1,38). Con il cuore pieno di fiducia in Dio, Maria intraprende un cammino di cui non conosce né il percorso né i pericoli.

Citando il Vangelo della tempesta calma, il Papa ha indicato il principale nemico della fede: "Non l'intelligenza, non la ragione, come purtroppo alcuni continuano a ripetere ossessivamente, ma semplicemente la paura. Per questo la fede è il primo dono da accogliere nella vita cristiana: un dono che dobbiamo accettare e chiedere ogni giorno, perché si rinnovi in noi. Può sembrare un piccolo dono, ma è quello essenziale". Infatti, ha ricordato Francesco, il giorno del battesimo il sacerdote chiede ai genitori: "Cosa chiedete alla Chiesa di Dio?", e loro rispondono: "La fede, il battesimo". "Per un padre cristiano, consapevole della grazia che gli è stata data, questo è il dono che deve chiedere anche per il suo bambino: la fede. Con essa, un padre sa che, anche in mezzo alle prove della vita, suo figlio non annegherà nella paura. Sa anche che, quando non avrà più un padre su questa terra, avrà ancora Dio Padre in cielo, che non lo abbandonerà mai. Il nostro amore è fragile, solo l'amore di Dio vince la morte", ha continuato il Papa.

Al termine, il Papa ha invitato tutti i presenti a dire: "Signore, aumenta la nostra fede".

Al termine dell'udienza, il Santo Padre non ha dimenticato di chiedere preghiere per la pace, ricordando le guerre in Ucraina, Israele, Palestina e i Rohingya in Myanmar, così come le vittime delle alluvioni in Kenya.

Ha anche chiesto l'intercessione di San Giuseppe Lavoratore per aumentare la nostra fede.

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Iniziative

Paul Christian Tsotie: "Le cure palliative sono urgentemente necessarie in Africa centrale".

L'Associazione camerunese di cure palliative "Soigner la Vie" (SLV) è stata presentata all'Hospital de Cuidados Laguna di Madrid, alla presenza dell'ambasciatore camerunese in Spagna, Paulin Godfried Yanga, e di rappresentanti di Congo, Nigeria e Gambia. Paul Christian Tsotie, presidente di SLV, spiega a Omnes che le cure palliative sono necessarie in Camerun e in Africa centrale e che l'eutanasia è vista come un "sacrilegio".

Francisco Otamendi-1° maggio 2024-Tempo di lettura: 5 minuti

La Repubblica del Camerun è uno Stato dell'Africa centrale di quasi mezzo milione di chilometri quadrati, con 28 milioni di abitanti, il 40% cristiani (cattolici e protestanti), il 20% musulmani e circa il 40% animisti. Il Paese confina a ovest con la Guinea Equatoriale, il Gabon, la Repubblica del Congo, la Repubblica Centrafricana, il Ciad e la Nigeria.

Conosciuta per la sua diversità geologica e per la sua cultura, ad esempio la musica, ma anche per lo sport, avendo vinto per cinque volte la Coppa d'Africa delle NazioniSecondo solo all'Egitto (7), il Camerun è una delle sole quattro squadre africane, insieme a Ghana, Sudafrica e Marocco, ad aver raggiunto i quarti di finale della Coppa del Mondo di calcio.

In occasione dell'evento di lancio a Madrid di "Soigner la Vie  ("Prendersi cura della vita"), hanno partecipato persone provenienti da una mezza dozzina di Paesi africani. Oltre all'ambasciatore del Camerun, hanno partecipato rappresentanti del Congo, della Nigeria, del Gambia e persone provenienti dal Senegal e dal Marocco, tra gli altri Paesi. L'ambasciatore camerunense in Spagna, Paulin Godfried Yanga, ha voluto sostenere l'iniziativa con la diffusione dell'Associazione tra la comunità camerunense in Spagna, come veri protagonisti per aiutare i propri connazionali in situazioni più precarie..

Un'altra "Lagune" in Camerun

Il padrone di casa, Direttore Generale dell'Hospital de Cuidados LagunaDavid Rodríguez-Rabadán, ha spiegato il legame tra Laguna e "Soigner la Vie" nell'aiuto e nella formazione per garantire che in futuro ci sarà un'altra "Laguna" in Camerun tra qualche anno. 

Encarnación Pérez Bret, dottore di ricerca in infermieristica e antropologia sociale, infermiera Lo specialista in cure palliative della Laguna ha spiegato "la necessità di promuovere le cure palliative come primo modo per combattere l'eutanasia" e l'urgenza di promuovere "la cultura delle cure palliative" in Africa, dove sono ancora agli inizi. 

Alla presentazione, condotta dall'attrice e scrittrice Eva Latonda, sono intervenuti anche il rappresentante di Soigner La Vie in Spagna, Pablo Pérez-Tomé, il medico Javier Sánchez Ayuso, e i volontari Steve Kommengne e Juan Luis García Hermoso, volontario da quasi 25 anni, che per la prima volta nella sua vita, all'età di 70 anni, si è recato a Yaoundé per aiutare per un paio di mesi. La testimonianza dello scrittore Isabel Sanchez dalla Colombia. Autore del libro "Prenditi cura di noi".ha voluto sostenere l'iniziativa. 

Per spiegare il lavoro svolto finora da SLV, il presidente di Soigner La Vie, Paul Christian Tsotie (Yaoundé, 1989), è intervenuto dal Camerun e ha parlato a Omnes delle cure palliative nel suo Paese e in Africa. Tsotie è un infermiere specializzato in cure palliative e gestione del dolore con 10 anni di esperienza e professore associato presso la Scuola di Scienze della Salute dell'Università Cattolica dell'Africa Centrale (ESS-UCAC).

Quali sono gli obiettivi di SLV in Camerun?

- Diffondere la cultura della medicina del dolore e delle cure palliative in Camerun e in Africa centrale attraverso la formazione/educazione e la promozione dell'offerta di cure palliative, e prevenire le malattie croniche, soprattutto i tumori.

Il bisogno globale di cure palliative.

- Secondo l'Atlante globale delle cure palliative, ogni anno più di 56,8 milioni di persone nel mondo hanno bisogno di cure palliative, di cui 31,1 milioni prima e 25,7 milioni alla fine della vita. La maggior parte (67,1 %) sono adulti di età superiore ai 50 anni e almeno 7 % sono bambini. La maggior parte (54,2 %) sono persone non decedute che necessitano di cure palliative prima dell'ultimo anno di vita.

Il peso delle malattie gravi e delle sofferenze legate alla salute, e il corrispondente bisogno di cure palliative, è immenso. Tuttavia, la maggior parte delle persone bisognose non ha accesso alle cure palliative, soprattutto nei Paesi a basso e medio reddito (LMIC). La maggior parte degli adulti che necessitano di cure palliative (76 %) vive nei Paesi a basso reddito e la percentuale maggiore si trova nei Paesi a basso reddito. Le malattie non trasmissibili rappresentano quasi il 69 % dei bisogni degli adulti.

Quali sono le malattie e le aree del mondo che richiedono più cure palliative?

- Tra gli adulti, le malattie e le condizioni che richiedono interventi di cure palliative sono il cancro, l'HIV/AIDS, le malattie cerebrovascolari, la demenza e le malattie polmonari.

Le regioni del Pacifico occidentale, dell'Africa e del Sud-Est asiatico rappresentano oltre 64 % di adulti che necessitano di cure palliative, mentre le regioni europee e americane rappresentano 30 % e la regione del Mediterraneo orientale 4 %.

Il fabbisogno maggiore per popolazione si registra nella regione africana (in relazione all'elevata incidenza dell'HIV/AIDS), seguita dalle regioni europee e americane con popolazioni più anziane.

In quasi tutte le regioni del mondo, gli adulti il cui bisogno di cure palliative è generato da patologie non maligne costituiscono il bisogno maggiore, seguito dal cancro. Solo nella regione africana l'HIV/AIDS prevale sulle malattie maligne e non maligne.

E in Camerun?

- Secondo il Piano strategico nazionale per la lotta contro il cancro (PSNLCa) 2020-2024, ci sono 15.700 nuovi casi all'anno, di cui 9.335 sono donne; l'80 % dei nuovi casi viene diagnosticato in ritardo e quasi tutti moriranno entro un anno; ci sono 10.533 decessi all'anno; secondo "ecancermedicalscience", ci sono 78.125 persone che hanno bisogno di cure palliative, cioè 3.100 pazienti affetti da HIV e 75.000 casi di cancro. Inoltre, ci sono poche organizzazioni impegnate in questo campo della medicina, il che non è molto attraente.

L'ambasciatore del Camerun in Spagna (al centro) alla presentazione di Soigner La Vie @Carlos de la Calle

Come vede la sensibilizzazione e la formazione in cure palliative?

- L'Associazione Soigner La Vie, insieme ad altre associazioni come Vopaca, Adespa, Alternative Santé e Santo Domingo, svolge attività di sensibilizzazione, formazione ed educazione, nonché campagne nelle scuole, nelle famiglie e nelle comunità per informare le masse sul tema delle cure palliative.

L'accesso agli oppioidi e ad altri farmaci per il dolore è un problema...

- L'accesso agli oppioidi, come la morfina, è un problema reale in Camerun. Si stanno compiendo sforzi in questo senso. La morfina in soluzione orale è disponibile da qualche mese, ma questo analgesico rimane inaccessibile, data la necessità espressa. Questo non è solo il caso del Camerun, ma dell'Africa in generale. L'accesso ad altri farmaci antidolorifici è relativo.

L'Africa rifiuta l'eutanasia, è vero?

- In Africa, la vita ha un carattere culturalmente sacro e tutti i Paesi africani considerano la questione dell'eutanasia un vero e proprio sacrilegio.

Si conclude la breve conversazione con Paul Christian Tsotie. Vale la pena ricordare che alcuni enti hanno contribuito alla presentazione della SLV in Spagna, come ad esempio l'associazione Fondazione Amici di Monkolecon il suo direttore, Enrique Barrio, la Fondazione Vianorte-Laguna e la Fondazione La Vicuña ARBOR VITAE e IDOC i FTIH. Anche la Fondazione Adeste, la Fondazione Recover e la Fondazione francese Adespa erano in qualche modo presenti con il loro sostegno. 

L'autoreFrancisco Otamendi

La Vergine Maria, una figura chiave nella storia della salvezza

Nella Vergine Maria inizia la storia della salvezza del Nuovo Testamento e in lei siamo trasportati anche alla fine della storia, poiché è in grado di testimoniare ciò che l'angelo le ha promesso: che il Regno di suo figlio non avrà mai fine.

1° maggio 2024-Tempo di lettura: 4 minuti

Quando una persona cara se ne va, riflettiamo sulla sua eredità e coloro che gli sono più vicini ricevono i suoi beni in un testamento legale o in un accordo implicito. Arrivando al Calvario, spogliato persino delle sue vesti, senza un luogo di sepoltura assicurato (solo quello prestato da Giuseppe d'Arimatea), che cosa avrebbe potuto fare un testamento scritto da Gesù di Nazareth? La volontà di Gesù è scritta in Giovanni 1926-27: "Donna, guarda tuo figlio. Figlio, guarda tua madre".

Le ricchezze della Vergine Maria

Nel Vangelo di Luca, capitolo 1, versetto 26, l'angelo Gabriele viene inviato a Nazareth per interrompere 400 anni di silenzio di Dio, con le parole: "Rallegrati, Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Non temere, perché hai trovato grazia presso Dio. Concepirai e partorirai un figlio, lo chiamerai Gesù e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo". 

A Maria sarebbe stato affidato l'essere più importante della creazione per concepirlo, nutrirlo, proteggerlo, formarlo e avviarlo al suo destino soprannaturale. Durante tutti quegli anni ella conservò nel suo cuore un diario di memorie che in seguito sarebbe stato consultato da discepoli, evangelisti e storici. 

Ricordiamo ciò che dice Luca 1,3: "Avendo esaminato attentamente ogni cosa fin dall'inizio, ho deciso di scrivere questo racconto in modo ordinato, caro Teofilo. In questo modo sarà possibile verificare la fondatezza degli insegnamenti che abbiamo ricevuto". 

Luca, autore di questo Vangelo tra il 59 e il 63 d.C., ha certamente intervistato coloro che conoscevano personalmente Maria per arrivare all'origine della storia di Gesù e per avvalorarne la validità. Leggendo il Vangelo di Luca, 1, 26-28, ci rendiamo conto che nella visita dell'angelo a Maria di Nazareth si rivela la grande importanza dell'inserimento di Maria nella storia della salvezza: è lei la testimone originale dell'origine divina di Gesù.

Senza la testimonianza di Maria, non avremmo la prova che questo Gesù, nato a Betlemme, che predicò con prodigi e miracoli in tutta la regione, non era un profeta qualsiasi, non era un uomo giusto o prodigioso qualsiasi, ma l'unico e vero Figlio di Dio. Senza la testimonianza di Maria, la nostra fede nella vera essenza e identità di Gesù Cristo vacilla. Nessun altro poteva testimoniare che Gesù era il Figlio di Dio, se non la madre che aveva concepito il Figlio di Dio.

Abbiamo bisogno della Vergine Maria

Dio incontra la sua fanciulla nella terra arida dell'alta Galilea. L'angelo Gabriele interrompe la sua vita di ricerca spirituale per introdurla a una vita di grandi incontri soprannaturali. 

La presenza di Maria nei Vangeli si legge come i versetti dei salmi: ogni versetto ci dice molto. Ogni intervento di Maria afferma un momento profetizzato: lei è l'anello di congiunzione tra l'anelito messianico e la promessa del Padre; l'anello di congiunzione tra l'antica alleanza e la nuova alleanza, tra i figli della legge e i figli della grazia. 

Se seguiamo le orme di Maria e la sua presenza nel Vangelo, notiamo segni profetici che indicano in suo figlio il Messia tanto atteso. 

La storia inizia con il miracolo a Santa Elisabetta, che rappresentava i figli della vecchia alleanza, dell'Antico Testamento, i cui cuori erano grembi sterili che non potevano ottenere o concepire la grazia di Dio. 

Maria rappresenta i figli della Nuova Alleanza, cuori fertili e docili al "seme di Dio", la rinascita di una nuova storia. 

"Benedetta sei tu tra le donne e benedetto è il frutto del tuo grembo". Luca 1:42. "Beati voi perché credete che le promesse di Dio si realizzeranno in voi". Questo è un annuncio delle grazie che verranno. Maria rappresenta coloro che crederanno anche senza aver visto.

Il Vangelo della gioia

Maria evangelizza con il suo esempio, insegnandoci ad avere una fiducia incondizionata in Dio, rispondendo ad ogni invito e ad ogni proposta: "avvenga per me secondo la tua parola"; così come 30 anni dopo suo figlio ci insegna a pregare, dicendo: "Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra".

In Maria inizia la storia della salvezza del Nuovo Testamento e in lei siamo tradotti alla fine della storia della salvezza, poiché è in grado di testimoniare ciò che l'angelo le ha promesso: che il Regno di suo Figlio non avrà fine. In altre parole, sarà incoronato Re dei re e Signore dei signori!

Da Maria impariamo a vivere una fede senza limiti né ostacoli. Se c'è qualcuno che può affermare che per il nostro Dio non esistono impossibilità, è proprio lei. Per questo dobbiamo osare fare passi di fede in piena fiducia. Il sì di Maria vince il no di tanti che hanno rifiutato la chiamata di Dio nella loro vita. 

Maria ci evangelizza anche nel suo Magnificat di Luca 1, 46-55 assicurandoci che i nostri vuoti saranno trasformati in favori, i nostri dolori in gioie, la fame degli affamati sarà saziata, i caduti saranno sollevati con un braccio forte e gli umili saranno esaltati.

La presenza di Maria 

Ancora oggi abbiamo bisogno della presenza e della visita di Maria, affinché i bambini possano saltare di gioia nel grembo delle loro madri e vivere. 

Continuiamo ad avere bisogno della presenza e del discernimento di Maria per percepire le nostre carenze esterne e i nostri vuoti interiori e, attraverso la sua intercessione, per trasformare l'acqua in vino. 

Continuiamo ad avere bisogno della presenza e della saggezza di Maria per continuare ad evangelizzarci con la parola e con il silenzio, affinché, come lei, possiamo sentire la speranza piena, manifestare l'abbandono incondizionato, la fede inesauribile, il coraggio nella sofferenza, la pace nelle avversità, il senso di guadagno nella perdita e lo scopo soprannaturale della vita.

L'autoreMartha Reyes

Dottorato di ricerca in psicologia clinica.

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Riforme "San José".

In questa festa di San Giuseppe Lavoratore, penso alla mancanza di rinnovamento nella mia casa interiore: alla necessità di riparare le schegge che la vita mi ha lasciato.

1° maggio 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

Il Primo Maggio, Giornata Internazionale dei Lavoratori, dal 1955 la Chiesa celebra la Giornata di San Giuseppe Lavoratore, che tradizionalmente viene identificato con un falegname, ma che era molto di più: era un "τέκτων". Sapete cosa significa?

Per conoscere l'ufficio di San Giuseppe, il marito di Maria, dobbiamo cercare il riferimento nel Vangelo secondo Matteo, che racconta come, dopo aver sentito la gente della sua città parlare di Gesù con tale unzione e saggezza, non potevano crederci e si chiedevano: "Non è costui il figlio del falegname? È così che è stato tradizionalmente tradotto il termine greco "τέκτων (tekton)", in cui sono stati scritti i Vangeli, che era la lingua comune del Mediterraneo orientale al tempo di Gesù.

La domanda è: definiremmo tekton quello che oggi intendiamo come falegname? La risposta è un no assoluto e clamoroso. Un falegname, oggi, lo identificheremmo come qualcuno che si occupa esclusivamente di lavori in legno. E distingueremmo un falegname (che costruisce strutture, lavora con grandi travi, ecc.), da un falegname di mobili (che costruisce e installa porte, armadi, mobili da cucina...), da un ebanista (che intaglia, modella e trasforma il legno...).

A tekton era tutto questo, ma anche molto di più, perché la parola designa una persona che svolge un'ampia gamma di lavori manuali, che oggi rientrerebbero nella categoria dei lavori di muratura, comprendendo tutti i lavori di costruzione e persino l'intaglio della pietra. È, come diremmo oggi, un tuttofare, un artigiano, una persona con grandi conoscenze e abilità nei mestieri manuali legati all'edilizia.

Ma che dire di Gesù, anche lui era un tuttofare? Una sentenza rabbinica affermava che "chi non insegna a suo figlio un mestiere manuale gli insegna a rubare", quindi possiamo supporre che Gesù abbia seguito le usanze del suo popolo e abbia imparato il mestiere da suo Padre. E intendo suo Padre, con la maiuscola, visto che (coincidenza!) anche il suo vero Padre è presentato nella Genesi come un artigiano che, con l'abilità delle sue mani, ha costruito l'universo e ha plasmato uomini e animali.

È facile immaginare Giuseppe e Gesù, nella loro officina, che segano una grossa trave e, subito dopo, Giuseppe che cerca di togliere con delicatezza il granello di segatura caduto accidentalmente nell'occhio del ragazzo; è facile vedere il ragazzo che spazzola e leviga un giogo, come gli aveva insegnato il padre, perché sia liscio e non ferisca il collo del bue del vicino o che scolpisce una pietra che gli architetti avevano scartato perché non era del tutto perfetta per trasformarla, con due colpi di scalpello, nella pietra angolare di un nuovo edificio; È facile vedere Gesù adulto e Giuseppe che, mazza alla mano, abbattono la facciata della sinagoga di Nazareth, marcita dall'umidità, e la ricostruiscono, come avevano chiesto i farisei, con una porta più ampia, perché l'originale era troppo stretta perché potessero entrare comodamente con le loro vesti sontuose.

La tradizione della Chiesa ha anche visto Gesù Cristo lavorare fianco a fianco come tekton, questa volta accanto a suo Padre Dio e come seconda persona della Trinità, nel seguente passo del libro dei Proverbi: "Quando egli pose i cieli, io ero là; quando pose la volta sulla faccia degli abissi; quando fissò le nubi in alto e fissò le sorgenti profonde; quando pose un confine al mare, le cui acque non trapassano il suo comando; quando pose le fondamenta della terra, io ero accanto a lui, come un architetto, e di giorno in giorno lo rallegravo, tutto il tempo giocavo alla sua presenza: giocavo con la palla della terra, e le mie delizie sono con i figli degli uomini".

In questa festa di San Giuseppe Lavoratore, penso alla mancanza di ristrutturazioni nella mia casa interiore: la necessità di riparare quelle schegge che la vita mi ha lasciato, l'urgenza di abbattere quei muri che ho costruito contro gli altri, di aprire una finestra in quella stanza che è un po' triste e di fare delle buone mensole che mi permettano di riordinare il disordine che a volte provoco. Conosco un paio di bravi tuttofare che possono sicuramente aiutarmi. Se siete come me, vi ho lasciato qui il loro numero. Chiamateli. Sono affidabili.

L'autoreAntonio Moreno

Giornalista. Laurea in Scienze della Comunicazione e laurea in Scienze Religiose. Lavora nella Delegazione diocesana dei media di Malaga. I suoi numerosi "thread" su Twitter sulla fede e sulla vita quotidiana sono molto popolari.

Vaticano

Il Papa prega per la formazione di religiosi e seminaristi

Papa Francesco vuole che i cattolici preghino durante il mese di maggio per la formazione di religiose, seminaristi e religiosi in tutto il mondo.

Paloma López Campos-30 aprile 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

Papa Francesco chiede ai cattolici di unirsi a lui nella preghiera per la formazione "umana, pastorale, spirituale e comunitaria" di religiosi e laici durante il mese di maggio. seminaristi.

Come di consueto, il Rete mondiale di preghiera del Papa ha reso pubblica l'intenzione di preghiera del Pontefice. Dopo il mese di aprile dedicato alle donne, il Santo Padre vuole concentrarsi sul "cammino vocazionale" di religiose, seminaristi e religiosi.

Grazie a un'adeguata formazione in tutti gli ambiti della persona, il Vescovo di Roma vuole che coloro che hanno donato completamente la propria vita a Cristo siano "testimoni credibili del Vangelo". Perché, insiste il Papa, "un buon sacerdote, una suora, devono essere prima di tutto un uomo, una donna, formati, lavorati dalla grazia di Dio". In questo modo, continua nel suo messaggio, saranno "persone consapevoli dei propri limiti e pronte a condurre una vita di preghiera, di dedizione alla testimonianza del Vangelo".

Formazione orientata al futuro

La formazione è una delle chiavi su cui Francesco insiste spesso, e avverte che "non finisce in un momento particolare, ma continua per tutta la vita". È un aspetto che sottolinea molto, soprattutto quando i seminaristi visitano il Vaticano e lo incontrano.

È consuetudine che l'agenda del Pontefice comprenda udienze con i giovani che si preparano al sacerdozio. Il 20 aprile 2024, durante un ricevimento con la comunità del seminario di Siviglia (Spagna), il Santo Padre ha consigliato ai seminaristi di "fare buon uso di questo intenso tempo di formazione, con il cuore di Dio, con le mani aperte e un grande sorriso per diffondere la gioia del Vangelo".

Allo stesso modo, il Papa riceve anche le visite di religiosi e religiose, ai quali chiede di curare la formazione, che serve anche a preparare alla vita comunitaria, che è "arricchente", dice Francesco nel suo messaggio per il mese di maggio, "anche se a volte può essere difficile".

Grazie alla cura della formazione, afferma il Papa nel suo messaggio, è possibile "lucidare" e "lavorare", dando "forma da ogni lato" a ogni vocazione, che definisce "un diamante grezzo".

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Libri

"Saggezza e innocenza", una biografia di Chesterton

Ediciones Encuentro ha pubblicato "Saggezza e innocenza", una biografia di Chesterton del convertito Joseph Pearce.

Loreto Rios-30 aprile 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

In occasione del 150° anniversario della nascita di G. K. Chesterton, Edizioni Encounter ha lanciato una nuova edizione della biografia scritta dal professor Joseph Pearce, con un'introduzione dello scrittore Enrique García-Máiquez.

La biografia è interessante soprattutto per l'autore, convertito al cattolicesimo dopo aver letto, tra gli altri, Newman, Chesterton, Hilaire Belloc, C. S. Lewis e J. R. R. Tolkien. Non è la sua unica incursione in questo genere: ha firmato anche lo studio "C. S. Lewis e la Chiesa cattolica" e un'importante biografia di Aleksandr Solzhenitsyn, che ha avuto modo di incontrare personalmente a Mosca e che ha approvato il libro dopo il suo completamento.

G. K. Chesterton. Saggezza e innocenza

AutoreGiuseppe Pearce
EditorialeIncontro
Pagine: 604
Madrid: 2024

"Saggezza e innocenza" è quindi uno studio rigoroso su Chesterton che, inoltre, mette in primo piano la sua fede cristiana, anziché relegarla sullo sfondo, come avviene in alcune biografie di personaggi cristiani.

Inoltre, Pearce non si limita a raccontare la vita del famoso scrittore inglese, ma approfondisce anche alcune delle sue opere più importanti.

Di grande interesse sono i frammenti che trattano del suo processo di conversione, perché sebbene Chesterton sia diventato cattolico nel 1922, quando aveva 48 anni, dal momento in cui ha iniziato a credere nel cristianesimo era alle porte della Chiesa. Infatti, la prima raccolta di storie di Padre Brown, il famoso prete e detective cattolico inventato da Chesterton (basato su Padre John O'Connor, che anni dopo avrebbe ascoltato la sua confessione generale), fu pubblicata nel 1910, anni prima della sua conversione, così come la sua famosa "Ortodossia" del 1908.

D'altra parte, il testo è arricchito da lettere e scritti, sia dello stesso Chesterton che di persone a lui vicine, che offrono prospettive diverse sul personaggio. A titolo di esempio, una lettera che lo scrittore inviò alla madre dopo essersi convertito al cattolicesimo, passo in cui lo aveva preceduto il fratello minore Cecil: "Ti scrivo per dirti una cosa prima di dirla a chiunque altro, una cosa che probabilmente ci metterà nella situazione di due inseparabili amici di Oxford che 'non differivano mai in nulla se non nelle loro opinioni'. [...] La storia risale a molto tempo fa, in una certa misura, perché sono giunto alla stessa conclusione di Cecil [...] e ora sono cattolico, come lo era lui, dopo aver rivendicato a lungo questo titolo in senso anglo-cattolico. [...] Queste cose non guastano i rapporti tra chi si ama come noi; e tanto meno quando non comportavano la minima differenza di affetto tra Cecil e noi. [...] L'altra cosa che volevo dirvi è che tutto questo è venuto da me, e non è stato un impulso improvviso e sentimentale. [...] Credo che sia la verità" ("Saggezza e innocenza", pp. 350-351).

In breve, questa biografia è interessante non solo per i lettori abituali di Chesterton, ma anche per coloro che vogliono saperne di più su di lui, sulla società inglese dell'epoca e sul suo processo di conversione al cattolicesimo.

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Cultura

Il campo santo teutonico a Roma

Da quando Carlo Magno fondò una "Schola Franconia" accanto a San Pietro, il cimitero ha attraversato molte vicissitudini e oggi ospita non solo un cimitero, ma anche gli edifici dell'Arciconfraternita, del Pontificio Collegio dei Sacerdoti Tedeschi e dell'Istituto Romano della Società Scientifica di Görres.

José M. García Pelegrín-30 aprile 2024-Tempo di lettura: 4 minuti

Il Campo Santo Teutonico (o Fiammingo, come viene ufficialmente chiamato) non solo ospita il cimitero "tedesco" completamente murato di Roma, ma anche una serie di edifici associati. La sua storia risale all'epoca di Carlo Magno, quando papa Leone IV donò questo terreno al re franco in occasione della sua incoronazione imperiale a Roma nel Natale dell'800.

Carlo Magno istituì a Roma la "Schola Franconia", una delle tante organizzazioni regionali che offrivano ospitalità ai pellegrini e ai connazionali provenienti da una determinata regione o area linguistica, che erano distribuiti in tutta la città e in particolare intorno alla Basilica di San Pietro. Questa Schola si fuse presto con il cimitero che esisteva all'interno delle mura vaticane per i pellegrini di lingua tedesca dalla fine dell'VIII secolo.

È importante notare che parlare di una lingua "tedesca" nell'VIII e IX secolo è anacronistico, poiché i "Franchi", all'origine del regno e dell'impero di Carlo Magno, in quei secoli erano distribuiti su gran parte degli attuali territori di Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Italia settentrionale (ex regno langobardo). Pertanto, il termine "teutonico" è più preciso e comprende non solo gli attuali tedeschi (tedeschi in italiano, tudesco in inglese antico), ma anche tutti coloro che vivono nell'area culturale storica di lingua tedesca; a sua volta, il termine italiano "fiamminghi" comprende gli attuali fiamminghi e olandesi.

La stretta relazione tra i "tedeschi" e Roma iniziò, tuttavia, e doveva continuare quando, dopo la divisione dell'Impero carolingio in tre regni con il Trattato di Verdun nell'843, il regno dei Franchi orientali divenne l'Impero romano-germanico all'inizio del X secolo sotto i cosiddetti Ottoni: con Ottone I (re dal 936, imperatore dal 962) inizia la tradizione del re tedesco incoronato dal Papa come imperatore del (Sacro) Impero Romano-Germanico, tradizione che continuerà fino al 1530: Carlo V (Carlo I di Spagna) fu l'ultimo re tedesco a ricevere la corona imperiale dal Papa, anche se l'incoronazione avvenne a Bologna e non a Roma.

14° - 16° secolo

L'istituzione del "Campo Santo Teutonico" comprendeva non solo il cimitero, ma anche una chiesa e gli edifici adiacenti. Tuttavia, durante lo Scisma d'Occidente (1378-1417), il complesso subì notevoli danni. Solo a metà del XV secolo Friedrich Frid, nativo di Magdeburgo, fece rivivere la tradizione di seppellire i pellegrini di origine tedesca nel Campo Santo Teutonico e riparò gli edifici esistenti.

Radunò intorno a sé un gruppo di aiutanti tedeschi e fiamminghi, che portarono alla fondazione di una Confraternita delle Povere Anime nel 1454, incentrata sull'offerta di un luogo di riposo dignitoso per i pellegrini, oltre che sulla commemorazione cristiana dei defunti, sul mantenimento del servizio religioso, sulla cura dei pellegrini e sull'assistenza ai connazionali bisognosi e malati.

Il terreno appartenente ai canonici di San Pietro fu trasferito alla confraternita. L'attuale chiesa di Santa Maria della Pietà fu consacrata nell'anno giubilare del 1500. Nel 1579, Papa Gregorio XIII elevò la confraternita al rango di Arciconfraternita dell'Addolorata Madre di Dio nel "Campo Santo degli Alemani e Fiamminghi".

XIX - XX secolo

Quando, nel XIX secolo, cominciarono ad apparire a Roma numerosi ostelli non ecclesiastici, la necessità di ostelli per pellegrini cessò di esistere, almeno nella stessa misura di prima. Si pose quindi la questione di un uso moderno del "Campo Santo". Allo stesso tempo, l'archeologia cristiana divenne una disciplina scientifica e conobbe una notevole crescita. Inoltre, con il Kulturkampf (o "battaglia culturale") della Prussia contro il cattolicesimo, Roma divenne un rifugio per i chierici tedeschi che non potevano lavorare nel Reich tedesco.

Nel 1876, sotto il rettorato di Anton de Waal (1873-1917), fu fondato a Campo Santo il Collegio dei Sacerdoti come centro di studi con una biblioteca e una collezione paleocristiana. Pochi anni dopo, nel 1888, vi stabilì la propria sede anche l'Istituto Romano della Società di Ricerca Görres. Gli edifici occupati da entrambe le istituzioni furono messi a disposizione gratuitamente dall'Arciconfraternita. Con la fondazione dello Stato Vaticano nel 1929 con i Trattati Lateranensi, il Campo Santo ottenne lo status extraterritoriale. Nel 1943/44, durante l'occupazione tedesca di Roma, vi trovarono rifugio circa 50 persone.

Dopo la seconda guerra mondiale, l'Arciconfraternita, il Collegio dei Sacerdoti e l'Istituto Görres ripresero la loro lunga collaborazione. Il Campo Santo conobbe un rapido boom, che si tradusse in una ristrutturazione e in un ampliamento su larga scala degli edifici negli anni Sessanta e Settanta. Sotto il lungo rettorato di Erwin Gatz (1975-2010), che fu anche direttore dell'Istituto Görres, iniziò una fase di consolidamento istituzionale e di profilazione accademica.

Il campo santo teutonico a Roma
Papa Francesco celebra la Messa nella cappella del Campo Santo Teutonico in occasione della festa di Tutte le Anime ©CNS photo/Vatican Media

Il Campo Santo Teutonico oggi

Oggi, oltre al "cimitero tedesco" completamente murato, il cimitero ospita la chiesa di Santa Maria della Pietà, sede dell'Arciconfraternita di Nostra Signora dei Dolori (Mater Dolorosa) dei tedeschi e dei fiamminghi, proprietaria del Campo Santo Teutonico, nonché il Pontificio Collegio dei Sacerdoti Tedeschi e l'Istituto Romano della Società Scientifica di Görres.

Sebbene sia l'unico cimitero all'interno delle mura della Città del Vaticano e si trovi proprio accanto alla Basilica di San Pietro, non fa parte del Vaticano ma del territorio italiano: i Trattati Lateranensi del 1929 lo hanno reso un possedimento extraterritoriale della Santa Sede. Tuttavia, è accessibile solo attraverso il territorio vaticano.

Sia il cimitero che la chiesa del Campo santo teutonico È possibile visitare la chiesa tutti i giorni dalle 9.00 alle 12.00 (tranne il mercoledì, durante l'udienza papale). È inoltre possibile assistere alla Santa Messa celebrata nella chiesa - tranne nel mese di agosto - tutti i giorni alle 7.00 (la domenica alle 10.00).

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Cultura

José Tolentino Mendonça o le condizioni dell'esistenza

Sebbene nessun editore spagnolo abbia finora pubblicato un campione minimo della poesia di Tolentino Mendonça, egli è una delle voci più rappresentative della lirica portoghese più recente, al pari dei più prestigiosi poeti di lingua portoghese. In Spagna è noto per i suoi saggi, alcuni dei quali sono stati pubblicati in diverse edizioni.

Carmelo Guillén-30 aprile 2024-Tempo di lettura: 5 minuti

"Non teorizzo: osservo. Non immagino: descrivo. Non scelgo: ascolto".Questo approccio costituisce il punto di partenza per la poesia di Tolentino Mendonçache affronta, secondo le sue stesse parole, ".le condizioni di esistenza".. Rivendico così la sua lirica che, con una base colta, stupisce per lo stile eloquente e preciso, per l'uso di immagini visive e per la capacità di integrare nei suoi componimenti elementi provenienti da fonti molto diverse, nonché di incorporare aspetti della propria vita, senza che il nome di Dio - cosa che spesso ci si aspetta quando si conosce la sua biografia - compaia o dia adito all'idea che possa essere considerato un poeta manifestamente religioso, tanto meno a scopo moraleggiante. 

Inoltre, alla domanda sul perché nei suoi versi non ci siano quasi mai riferimenti espliciti alla divinità - che pure ci sono -, ha risposto: "... non ci sono riferimenti espliciti alla divinità nei suoi versi.Credo che Dio sia ovunque. Quanto più materiale, tanto più spirituale. Preferisco sempre un linguaggio aperto, anche a rischio di ambiguità, a un linguaggio ristretto e incapace di esprimere la complessità. Confesso che a volte la mia più grande difficoltà è trovare una traccia di Dio nei discorsi spirituali tipizzati. Tutto ciò che tenta di addomesticare Dio si allontana da lui". Pertanto, se dovessi definire la sua poesia, direi che è l'espressione umanistica di un credo poetico singolare, illuminato dalla lettura dei suoi saggi, in cui, come un palinsesto, si sovrappongono molteplici strati culturali con i quali dialoga costantemente, ed è per questo che è così suggestiva di possibilità interpretative.

Come una singola fiamma

Questo mondo intertestuale è uno strumento retorico sul quale egli elabora una poetica fondata sul frastuono della vita quotidiana, con una "speciale".attenzione alla realtà, un'attenzione incessante, sensibile al visibile e all'invisibile, all'udibile e all'innominabile".In breve, la sua opera lirica è uno sguardo profondo sugli enigmi, le cicatrici e le speranze dell'intricata esistenza dell'uomo. Per questo, leggendo le sue poesie, si sa che parlano di temi cruciali legati alla condizione umana e che abbracciano il materiale e lo spirituale in completa interrelazione, dimostrando così che la poesia è uno spazio dove non ci sono confini e dove il sublime e l'umile, il naturale e l'artificiale, ciò che era e ciò che è, si integrano: "...".La poesia può contenere: cose giuste, cose sbagliate, veleni da tenere fuori dalla portata / escursioni in campagna [...] / una guerra civile / un disco degli Smiths / correnti oceaniche invece di correnti letterarie".scrive in Grafiteun esempio, tra i tanti, in cui Tolentino Mendonça dà visibilità al suo modo di procedere quando intraprende una poesia. 

Lo stesso titolo della sua raccolta di poesie, La notte mi apre gli occhisi riferisce all'ampiezza di visione offerta dalla creazione poetica; un titolo che, come ha dichiarato lo stesso poeta, riflette la sua "dialetto transfrontaliero, perché fonde un riferimento ad una canzone degli Smiths [Tolentino Mendonça si riferisce senza dubbio alla canzone C'è una luce che non si spegne maiC'è una luce che non si spegne mai"]. con una chiara evocazione della teologia della "notte oscura" di San Giovanni della Croce. Il profano e il sacro sorgono come un'unica fiamma".

Un viaggiatore immobile

Per questa incursione letteraria, il poeta di Madeira si presenta come un viaggiatore immobile: "Da fermi facciamo i grandi viaggi".. Tuttavia, sebbene scriva le sue poesie dall'immobilità, dimostra un'acuta capacità di discernere ciò che alla fine svanisce con il tempo: "... la poesia del poeta è una poesia della stessa qualità.Improvvisamente cessiamo di percepire / le profondità dei campi / i grandi misteri / le verità che abbiamo giurato di preservare". di ciò che lascia un segno indelebile nell'anima: "Ma ci vogliono anni / per dimenticare qualcuno / che ci ha appena guardato".Questo fa sì che la sua attività poetica possa essere percepita come una ricerca di sé, decisamente arricchita dall'interazione con gli altri nella costruzione della propria identità. 

Questa interazione coinvolge lo sguardo dell'altro, che non solo guarda ma è anche altro. In questo senso, si manifesta come un mezzo per condividere, confrontarsi e comprendere l'esperienza umana, contribuendo al contempo alla co-creazione dell'universo delle sue poesie, aggiungendo strati di oscurità e bellezza. È senza dubbio un'idea capitale, che getta luce su molte delle sue composizioni, molto simile a quella del compianto Papa Benedetto XVI quando affermava che: "...la poesia non è una poesia, è una poesia.Solo servizio agli altri aprire gli occhi [enfasi aggiunta dall'autore dell'articolo]. quello che Dio fa per me e quanto mi ama".anche se Tolentino Mendonça la presenta in modo più sottile, intessuta nella retorica dei versi e utilizzando "la notte" come soggetto della frase grammaticale.

Vivere il corpo

In ogni caso, se la poesia è per lui una ricerca che richiede l'immobilità - e faccio, anche se molto brevemente, un passo ulteriore nello sviluppo della sua poetica - questa ricerca è possibile solo a partire dal corpo. O per dirla in altro modo: il corpo è il luogo o la situazione in cui ogni persona è più vicina a se stessa. Anche se non siamo solo il corpo, Tolentino Mendonça ritiene che in esso e attraverso di esso "... siamo il corpo.viviamo, ci muoviamo ed esistiamo".inoltre: "I sensi del nostro corpo ci aprono all'esperienza di Dio in questo mondo", o come annuncia nella poesia Ciò che un corpo può: "Viviamo il corpo, coincidiamo / in ognuno dei suoi poteri: muoviamo le mani / sentiamo il freddo, vediamo il bianco delle betulle / sentiamo sull'altra riva / o sopra i noccioli / il gracchiare dei corvi".. Questa consapevolezza corporea sottolinea l'importanza di essere pienamente connessi alle sensazioni e alle esperienze somatiche, sia attraverso la respirazione sia semplicemente essendo consapevoli delle sensazioni interne. Ci sono molte composizioni che abbondano in questo senso, soprattutto nella sua raccolta di poesie Teoria del confine (2017), dove afferma: "Il corpo sa leggere ciò che non è stato scritto". o "Il corpo è lo stato in cui ognuno / respira più vicino a sé".

La scuola del silenzio

Ma non è questa la fine del suo universo lirico. Come il corpo, anche il silenzio è un altro dei suoi grandi temi. Infatti, nella raccolta di poesie Il papavero e il monaco (2013) gli dedica addirittura una serie di brevi testi dal titolo La scuola del silenzio. Si legge: "Tacere per far dire". o "Che il tuo silenzio sia tale / che nemmeno il pensiero di esso".dimostrando così che esistono altri mondi oltre a quello della dittatura del rumore, e che il silenzio è una forma di resistenza alla frenesia della vita".un luogo di lotta, di ricerca e di attesa.dice in uno dei suoi saggi. "A poco a poco ci uniamo alla possibilità di dare spazio, di aprire la nostra vita all'altro, lasciandoci abitare dalla rivelazione dell'alterità". Ed è lì, nell'alterità, che converge tutta la sua opera lirica, sia dal silenzio, sia dal corpo, sia dall'immobilità, sia dall'intertestualità culturale in cui si muove questa poesia, che ha tanto bisogno di una pronta traduzione in spagnolo.

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Vaticano

Il Papa alla Biennale di Venezia

Rapporti di Roma-29 aprile 2024-Tempo di lettura: < 1 minuto
rapporti di roma88

Papa Francesco ha visitato la Biennale di Venezia il 28 aprile 2024. La Santa Sede ha un padiglione in questa mostra con il titolo "Con i miei occhi".

Papa Francesco ha spiegato perché: perché tutte le persone hanno bisogno di essere "guardate e riconosciute".


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Zoom

Il Papa sui canali di Venezia

Papa Francesco saluta i giovani dalla barca che lo ha portato dall'Isola della Giudecca alla Basilica di Santa Maria della Salute a Venezia il 28 aprile 2024.

Maria José Atienza-29 aprile 2024-Tempo di lettura: < 1 minuto
Libri

Una luce nelle nebbie. "Teologie dell'occasione", di Henri de Lubac

"Teologie dell'Occasione", un volume di ventiquattro articoli del teologo Henri de Lubac, è stato recentemente pubblicato dalla Biblioteca de Autores Cristianos (BAC).

Juan Carlos Mateos González-29 aprile 2024-Tempo di lettura: 5 minuti

Forse la prima cosa che colpisce l'occhio del questo libro Perché "teologie dell'occasione"? Il volume recentemente pubblicato dalla BAC è composto da ventiquattro opere molto disomogenee che Henri de Lubac (1896-1991) ha scritto nell'arco di quasi mezzo secolo. Nel 1984, su richiesta dei suoi lettori, il gesuita francese decise di pubblicare questa raccolta di brevi scritti: "Tutti i testi qui riprodotti hanno un intento teologico. Non provengono, tuttavia, né da un insegnamento organico su qualche punto centrale del dogma o della sua storia, né da una ricerca prolungata su un argomento particolare". In un altro libro confessa anche che "il lettore ha potuto rendersi conto che quasi tutto ciò che ho scritto è stato funzione di circostanze, spesso impreviste, all'interno di una certa dispersione e senza preparazione tecnica". Come sottolinea giustamente l'amico H. U. von Balthasar, la vasta produzione di H. de Lubac è "un'opera che si apre liberamente in tutte le direzioni".

Teologie dell'occasione

AutoreHenri de Lubac
Editoriale: BAC
Pagine: 640
Madrid: 2023

Il nome di H. de Lubac è familiare nel mondo teologico, ma per più di uno questo libro può essere una buona occasione per avere una "visione del mondo" molto completa del pensiero del gesuita francese. Nella teologia di H. de Lubac si percepisce un vivo interesse per la storia e per gli aspetti sociali del cristianesimo. Laddove la storia era tragica e dolorosa, il giovane professore di Lione cercava di offrire una parola di discernimento. Così, molti degli eventi di cui H. de Lubac fu testimone caratterizzarono il corso del suo lavoro teologico, e questo spiega la grande varietà della sua produzione - nei temi e nelle opere - una disparità che si riflette anche in questo libro. Per questo motivo, cercheremo di descrivere i nuclei tematici di ciascuno dei capitoli, tenendo conto dell'"ordine lubacano" dei capitoli.

Per approssimazione, esamineremo solo la prima e l'ultima parte del libro "Teologie dell'Occasione", poiché entrambe sono molto rappresentative dell'intero contenuto.

La prima parte, intitolata "Teologia e spiritualità", è composta da sei capitoli di natura teologica e spirituale. Tre di essi affrontano direttamente questioni di natura ecclesiologica e sacramentale, altri due si occupano di teologia spirituale e l'ultimo è un prezioso contributo al lavoro della teologia fondamentale:

"Sanctorum communio". Nel primo capitolo, de Lubac esamina il significato che l'espressione "comunione dei santi" ha acquisito nella tradizione cristiana nel corso dei secoli. Il gesuita francese analizza le vicissitudini dell'espressione "corpo mistico" e le sue ripercussioni sul rapporto tra Chiesa ed Eucaristia. Per l'autore, la "comunione dei santi" significa soprattutto che tra tutti coloro che appartengono a Cristo, tra tutte le membra del suo corpo, esiste una comunione di vita, che è ciò che costruisce e sostiene la Chiesa.

Teologie dell'occasione può aiutarci a rispondere ad alcune domande spirituali del nostro tempo.

"Mistica e mistero". L'interesse di De Lubac per la mistica divenne una fonte di ispirazione da cui discernere molte altre questioni teologiche. Poiché non è frutto di ignoranza, ma di adorazione, nella mistica cristiana "il silenzio non è all'inizio, ma alla fine". A differenza di altre possibili vie, la mistica cristiana è una mistica della somiglianza, che guarda al Dio che chiama l'uomo dalla sua natura più profonda per orientarlo verso se stesso: "Dio non è ineffabile nel senso che è inintelligibile: è ineffabile perché rimane sempre al di sopra di tutto ciò che si può dire di lui".

"Comunità cristiana e comunione sacramentale". In modo simile al primo capitolo, presenta la storia della comprensione della nozione di communio-κοινωνία in relazione alla Chiesa, ma, in questo articolo, H. de Lubac cerca di contrastare coloro che temevano che il recupero del senso biblico e patristico della nozione implicasse un abbassamento dell'affermazione della presenza reale di Cristo nel sacramento. Con quest'opera, H. de Lubac invita il cristiano a immergersi sempre di nuovo "nelle origini sacramentali della comunità cristiana, nelle fonti mistiche della Chiesa".

L'ultima parte, "In memoriam", contiene due articoli che "ringraziano" i suoi grandi amici e maestri per tutto ciò che aveva ricevuto. Quelli intitolati "Filosofo e apostolo" e "L'amore di Gesù Cristo" sono dedicati alla memoria di A. Valensin, suo insegnante di filosofia presso le Facoltà cattoliche di Lione. Auguste Valensin (1879-1953) fu uno degli attori coinvolti nei dibattiti del mondo intellettuale cattolico tra le due guerre, sulla scia della crisi modernista. Fu senza dubbio Valensin stesso a far conoscere al giovane Lubac il pensiero di M. Blondel. Un altro fronte comune che rafforzò ulteriormente la loro amicizia fu l'opposizione al totalitarismo. Gran parte della loro corrispondenza epistolare fu pubblicata postuma dallo stesso H. de Lubac, su richiesta dei suoi superiori.

Gli ultimi tre articoli di questa ultima parte sono dedicati all'eccezionale scrittore e diplomatico francese P. Claudel: "Su un credo di Claudel", "Claudel teologo" e "Il dramma della chiamata". Dopo la sua conversione religiosa, avvenuta il 25 dicembre 1886, alla vigilia di Notre-Dame de Paris, Claudel ha sviluppato una prolifica carriera letteraria, tanto da essere considerato uno dei principali poeti e drammaturghi cattolici del XX secolo.

H. de Lubac aveva iniziato a leggere le sue opere già durante gli studi secondari. Infatti, P. Claudel era, insieme a Ch. Péguy, uno dei poeti preferiti di H. de Lubac fin dal suo ingresso nella Compagnia di Gesù. Claudel e Péguy: due poeti teologi di eccezionale levatura, troppo spesso dimenticati nella Chiesa. Fin dal loro primo incontro, nel 1942, H. de Lubac e P. Claudel condivisero un interesse reciproco per la dimensione spirituale dell'interpretazione della Bibbia, basata sulla lettura dei Padri della Chiesa.

Forse il modo migliore per collocare il testo intitolato "Su un Credo Claudeliano" è quello di guardare indietro alla sua Memoria, dove spiega: "Nella prefazione che ho posto una volta davanti a una selezione di testi claudeliani sul Credo, ho cercato di mostrare, per mezzo di rari esempi tratti da questa selezione, quali ricchezze offre l'opera di Claudel per la riflessione dottrinale, quali prospettive, a volte insospettate [...]. Stupirà per la sua audacia e per la forza viva di rinnovamento che ispira".

Il capitolo intitolato "Claudel teologo" è il testo di una conferenza tenuta all'Institut Catholique di Parigi nel dicembre 1968. Il retrogusto pessimistico di alcune note è forse dovuto più ai tumulti e alle polemiche dell'immediato post-concilio e del maggio 1968 che al genio del Lubacian. Infatti, il suo lamento non è per l'eclissi di Claudel, ma dei valori religiosi e cristiani su cui si basava la sua opera.

Infine, l'articolo "Il dramma della chiamata" è nato da una recensione che il gesuita ha scritto su un libro di A. Becker con lo stesso titolo. Il libro cercava di mettere in luce il rapporto dell'opera e del pensiero di P. Claudel con la fede e la spiritualità cristiana, illustrando come il poeta avesse affrontato il tema della chiamata divina nella sua opera lirica e drammatica, confrontandosi con questioni profondamente esistenziali e spirituali.

Al termine del nostro percorso tematico attraverso i ventiquattro studi che compongono il presente volume, possiamo vedere la grandezza di quest'opera, costruita al ritmo del lavoro e dei giorni, in un'ampia gamma di contesti e occasioni in cui il teologo francese si sente chiamato a offrire una parola specifica al suo lavoro. In questo senso, i capitoli di "Teologie d'occasione" possono aiutarci a rispondere ad alcune delle domande spirituali del nostro tempo. La loro lettura e il loro studio saranno di grande utilità per il lettore, per lo specialista - e anche per il dilettante - delle questioni teologiche. Una lettura profonda e confortante, vitale e serena, accademica e spirituale. Ringraziamo la BAC e la Fundación Maior per il loro impegno a pubblicarlo in spagnolo.

L'autoreJuan Carlos Mateos González

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Iniziative

Ave Maria, la città "su misura" della Florida per i cattolici

In Florida c'è una città chiamata Ave Maria, che mira a rendere più facile per tutti i suoi abitanti vivere la fede cattolica in comunità.

Paloma López Campos-29 aprile 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

Non molti conoscono il nome di Tom Monaghan, ma uno dei suoi progetti è ben noto: "Domino's Pizza". Tuttavia, questo franchising non è l'unica eredità dell'imprenditore americano. All'inizio del XX secolo, Monaghan vendette la sua azienda di pizza e si dedicò alla promozione di Ave Maria, una comunità non incorporata ispirata al cattolicesimo. Il termine "comunità non incorporata" si riferisce a un territorio non organizzato con un governo locale e, nel caso della Florida, appartiene giurisdizionalmente a una contea ma mantiene una certa indipendenza.

Dopo essersi convertito in seguito alla lettura di "Mere Christianity" di C.S. LewisTom Monaghan voleva usare il suo denaro per "portare in paradiso quante più anime possibile". Investì la sua fortuna nella costruzione di una grande chiesa che sarebbe stata il centro di questa nuova comunità. Il progetto iniziale di Monaghan era di costruire una città esclusivamente per i cattolici. Ma il tempo dimostrò che era meglio aprire le porte a persone di altre fedi.

Nonostante ciò, tutto ciò che è stato costruito in città mira a rendere più facile la pratica della fede cattolica per i suoi abitanti. Il piano urbanistico è organizzato in modo tale che sia facile camminare e raggiungere il centro per andare in chiesa. D'altra parte, le strade sono intitolate a santi o ad altri elementi della fede.

Il Centro Ave Maria

La Chiesa dell'Ave Maria, nel cuore del territorio, vuole essere "una luce nelle tenebre che illumina la strada verso Gesù Cristo attraverso i sacramenti", come recita il suo sito web. L'obiettivo della chiesa è quello di promuovere la vita comunitaria tra i cattolici, con un'enfasi particolare sul dono agli altri, come dimostra il museo della chiesa dedicato a Santa Teresa di Calcutta.

Vicino all'edificio c'è una cappella di adorazione perpetua dove è possibile pregare davanti a Gesù sacramentato 24 ore al giorno, 7 giorni su 7. Inoltre, la parrocchia offre diversi corsi di formazione per adulti, giovani e bambini e incoraggia la creazione di gruppi come Emmaus, la Legione di Maria o gli studi biblici.

Interno della parrocchia di Ave Maria in Florida (Flickr / Steve Knight)

Istruzione all'Ave Maria

Nelle vicinanze della comunità ci sono diverse scuole, tre private e quattro pubbliche. Inoltre, il fondatore di "Domino's Pizza" ha aperto anche la università Ave Maria per offrire ai cittadini un'istruzione superiore basata sul magistero della Chiesa cattolica.

L'università vuole trasformare "i suoi studenti nella prossima generazione di santi". Sul loro sito web spiegano che, accanto all'importanza della formazione accademica, l'obiettivo è quello di nutrire l'intera persona, assicurando a studenti e professori l'accesso ai sacramenti in modo che possano "dare gloria a Dio".

Per quanto riguarda l'offerta accademica, l'Ave Maria non è molto diversa da qualsiasi altra università. Sebbene offra corsi che potrebbero essere definiti confessionali, come Family Studies o Catholic Studies, permette agli studenti di iscriversi anche a corsi come Ingegneria informatica, Lingue classiche, Infermieristica, Fisica, Biochimica o Storia.

Equilibrio difficile

Nonostante l'orientamento cattolico di questa comunità della Florida, nella città possono vivere anche persone di fedi diverse, tanto che nel 2017 è stata inaugurata la prima chiesa battista. L'idea originaria di Monaghan di imprimere la cultura cattolica ad Ave Maria in modo tale che non ci fosse modo di separarsene è stata abbandonata da tempo e oggi l'imprenditore afferma che Ave Maria è aperta a tutti.

Tuttavia, questo progetto su larga scala ha sollevato dubbi tra molte persone. Sorvolando su alcune dichiarazioni controverse rilasciate da Monaghan nel corso degli anni, c'è chi ritiene che una comunità come questa in Florida offuschi i confini tra religione e politica. La costruzione di una città basata sulla fede cattolica solleva questioni come la possibilità di vendere contraccettivi in farmacia o di condannare l'accesso alla pornografia.

Al di là di queste decisioni, che Ave Maria ha cercato di risolvere, c'è anche chi si chiede se la creazione di una comunità di questo tipo non faccia crescere i bambini in un ambiente chiuso e troppo protetto che non li prepara adeguatamente alla società di oggi.

Con queste domande sul tavolo, Ave Maria continua ad andare avanti e sta addirittura crescendo, poiché il progetto attira investitori che vogliono costruire sul territorio. Per il resto, le risposte alle domande del futuro, come in tutti i casi, le dirà solo il tempo.

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Vaticano

Il Papa ci invita a trasformare il mondo attraverso l'arte

Durante il suo viaggio a Venezia, Papa Francesco ha tenuto diversi incontri in cui ha sottolineato l'importanza della bellezza e dell'arte per trasformare il mondo.

Paloma López Campos-28 aprile 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

Durante il suo viaggio a VeneziaPapa Francesco ha avuto diversi incontri con i giovani, gli artisti e i fedeli che hanno partecipato alla Santa Messa in Piazza San Marco. Il Santo Padre ha approfittato di queste occasioni per rivolgere alcune parole ai presenti, soffermandosi sull'importanza della bellezza e dell'arte per trasformare il mondo.

Rivolgendosi ai giovani, Francesco ha voluto ricordare "il grande dono che abbiamo ricevuto, quello di essere figli amati da Dio, e quindi siamo chiamati a realizzare il sogno di Dio". Questo desiderio del Padre per i suoi figli, ha spiegato il Papa, "è che noi siamo testimoni e viviamo la sua gioia".

Per realizzare questo sogno di Dio, il Santo Padre sottolinea che è essenziale "riscoprire nel Signore la nostra bellezza e gioire nel nome di Gesù, un Dio dallo spirito giovane che ama i giovani e che ci sorprende sempre".

Per riscoprire questa bellezza, continua Francesco, è essenziale "staccarsi dalla tristezza" e ricordare "che siamo fatti per il cielo". Per fare questo, il Papa ci incoraggia a non soffermarci sulle nostre miserie e sui nostri peccati, ma a rivolgerci alla misecordia di Dio, "che è nostro Padre" e che quando cadiamo "ci tende la mano". Solo così possiamo "accettarci come un dono" e guardarci non con i nostri occhi, "ma con gli occhi di Dio".

L'arte di donarsi agli altri

Una volta raggiunto questo obiettivo, il Pontefice sottolinea l'importanza della perseveranza e di perdere la paura di "andare controcorrente". In questo senso, il Papa sottolinea anche che non possiamo camminare da soli, ma dobbiamo cercare di essere accompagnati da altri che desiderano vivere la loro vita con Cristo.

Nella stessa dinamica di accompagnamento, Francesco ha voluto ricordare ai giovani che "siamo chiamati a donarci agli altri". "La precarietà del mondo in cui viviamo", dice il Vescovo di Roma, "non può essere una scusa per stare fermi e lamentarsi". "Siamo in questo mondo per raggiungere coloro che hanno bisogno di noi", ha sottolineato il Papa.

Il Santo Padre spiega che "la vita si possiede solo quando si dona", per questo ci invita a sfuggire alle domande sul "perché" e a sostituirle con "per chi". In questo modo possiamo entrare nella dinamica creativa di Dio, una creatività "libera" in un mondo "che persegue solo il profitto".

Arte e sguardo contemplativo

Allo stesso modo, nel suo discorso agli artisti, Papa Francesco ha invitato i suoi ascoltatori a lottare con l'arte contro "il rifiuto dell'altro", rendendo così le persone "fratelli ovunque" grazie all'universalità dell'arte.

Questo può diventare una realtà, dice il Pontefice, perché "l'arte ci educa a uno sguardo non possessivo, non significante, ma anche non indifferente, superficiale". L'arte, continua il Papa, "ci educa a uno sguardo contemplativo". Per questo afferma che "gli artisti sono nel mondo, ma sono chiamati ad andare oltre".

Questo sguardo verso l'esterno si può trovare anche in carcere, come ha detto Francesco durante la sua visita alle donne detenute. Lì, il Papa ha sottolineato che "paradossalmente, la permanenza in carcere può segnare l'inizio di qualcosa di nuovo, attraverso la riscoperta di una bellezza insospettata in noi stessi e negli altri, come simboleggia l'evento artistico che accoglie e al cui progetto contribuisce attivamente".

Il Santo Padre ha colto l'occasione per chiedere che "il sistema penitenziario offra ai detenuti anche strumenti e spazi di crescita umana, spirituale, culturale e professionale, creando le condizioni per un loro sano reinserimento".

Restare in Cristo

Infine, nell'omelia pronunciata dal Papa durante la Messa celebrata in Piazza San Marco, Francesco ha sottolineato che "l'essenziale è rimanere nel Signore, dimorare in Lui". Qualcosa che non è statico, ma che implica "crescere nella relazione con Lui, dialogare con Lui, accogliere la sua Parola, seguirlo nel cammino del Regno di Dio".

"Rimanendo uniti a Cristo", dice il Papa, "possiamo portare i frutti del Vangelo nella realtà in cui viviamo". Questi frutti includono, tra gli altri, la giustizia, la pace, la solidarietà e la cura reciproca. Frutti di cui, insiste il Santo Padre, il mondo ha bisogno e che le comunità cristiane devono offrire al mondo.

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America Latina

Monsignor René Rebolledo: "Con una testimonianza di vita, saremo in grado di attirare altri a Gesù Cristo".

Monsignor René Rebolledo, arcivescovo di La Serena dal 2013, è stato eletto nuovo presidente della Conferenza episcopale cilena il 17 aprile.

Pablo Aguilera-28 aprile 2024-Tempo di lettura: 6 minuti

Nato a Cunco, monsignor René Osvaldo Rebolledo Salinas sarà a capo dell'episcopato cileno per i prossimi tre anni rinnovabili. Monsignor Rebolledo è stato ordinato sacerdote nel 1984. La sua attività pastorale è iniziata nella parrocchia Inmaculada Concepción di LoncocheSi è poi trasferito in Italia per conseguire il dottorato. Al suo ritorno si è dedicato in modo particolare alla formazione presso il Seminario Maggiore di San Fidel.

La formazione dei seminari è stata una delle aree principali del suo lavoro, infatti ha presieduto l'Organizzazione dei Seminari Cileni (OSCHI) e ha fatto parte del consiglio di amministrazione dell'Organizzazione Latinoamericana dei Seminari (OSLAM). San Giovanni Paolo II lo ha nominato vescovo di Osorno l'8 maggio 2004 e nel 2013 Papa Francesco lo ha nominato arcivescovo di La Serena. Il neoeletto presidente ha rilasciato un'intervista a Omnes in cui riflette sulla necessità di promuovere la pastorale vocazionale e su questioni come l'immigrazione.

Nel recente Messaggio della Conferenza episcopale del CileAl termine dell'assemblea plenaria, i vescovi hanno espresso la loro preoccupazione per la carenza di vocazioni al sacerdozio in Cile e hanno invitato i cattolici a intensificare le loro preghiere per questa intenzione. Quali sono le cause principali di questo netto calo nell'ultimo decennio? 

- Nel Paese si registra un notevole avanzamento della secolarizzazione, con un progressivo allontanamento degli adulti in generale e dei giovani in particolare dalle comunità ecclesiali. A questo si aggiunge la crisi istituzionale che abbiamo vissuto a tutti i livelli a causa di situazioni di abuso.

Tuttavia, in questo ambito, apprezzo il serio lavoro di prevenzione svolto a livello nazionale. Migliaia di operatori pastorali sono stati formati in tutte le circoscrizioni ecclesiastiche per contribuire a creare ambienti sani e sicuri, oltre che per accompagnare le vittime.

E quali potrebbero essere le iniziative per migliorare questa urgente necessità?

- Innanzitutto, intensificare la nostra preghiera. Consapevoli del grande bisogno di pastori per le nostre comunità, siamo invitati a fare nostri i sentimenti di Gesù, che "vedendo le folle, fu mosso a compassione per loro, perché erano vessate e indifese, come pecore senza pastore" (Mt 9,36). Anche oggi dobbiamo ascoltare ciò che il Signore disse ai suoi discepoli: "La messe è abbondante, ma gli operai sono pochi". Perciò, per riprendere - con ancora maggiore perseveranza - l'imperativo di "pregare il Signore dei campi perché mandi operai per la sua messe" (Mt 9,37-38).

Ho detto a vari livelli nell'Arcidiocesi: "La preghiera è l'unico strumento capace di agire sia nel campo della grazia che in quello della libertà, permettendo all'uomo di discernere la chiamata e di rispondere a Dio. Nutrita dalla Parola, apre il cuore del credente ad approfondire la verità più profonda di se stesso. In un cammino di fede, la preghiera permette di abbandonarsi alla volontà di Dio e di dare una risposta generosa a un particolare progetto di vita a cui Egli ci chiama.

Allo stesso modo, dobbiamo raccogliere la sfida - come ci hanno invitato a fare San Giovanni Paolo II, Benedetto e Francesco - di creare una "cultura delle vocazioni" a tutti i livelli, rivolgendoci ad alcune aree prioritarie in questo senso, come: le famiglie e i giovani, i chierichetti e, nel nostro ambiente, i tanti giovani che partecipano alle danze religiose, tra gli altri.

Inoltre, su richiesta dei giovani, il Prima Giornata Nazionale della Gioventù (NYD 2025), dal 21 al 26 gennaio 2025, con il motto: "Giovani pellegrini della speranza", in relazione al motto scelto per il Giubileo straordinario della Redenzione - 2025: Pellegrini della speranza. Questo incontro si ispira alla frase del Salmo119, 105: "La tua parola è una lampada per i miei piedi, una luce per il mio cammino". 

La preghiera che i giovani stanno recitando in preparazione alla Prima GMG afferma che i giovani "sono l'ora di Dio" e chiede al Signore che i giovani "pellegrini della speranza, animati dallo Spirito, contribuiscano a rinnovare la Chiesa e a costruire un Paese più giusto e solidale, curando la casa comune, abbracciando i poveri e gli emarginati, essendo testimoni dell'amore del Signore".

Penso che questo YWY sia un dono del Signore. È decisivo che i partecipanti aprano il loro cuore a Cristo che incanta la vita. In questo modo, questo incontro può essere un'opportunità per ascoltare la sua chiamata.

Ovviamente, la sfida della carenza di vocazioni deve essere affrontata dai vescovi con grande senso di corresponsabilità insieme ai laici, alle persone consacrate, ai diaconi e ai sacerdoti".

Nel Messaggio i vescovi cileni invitano ad accogliere i migranti nel nostro Paese. Il Indagine sul Bicentenario dell'Università Cattolica ha indicato che, nel 2022, l'82 % dei cileni considerava eccessivo il numero di immigrati. Inoltre, a causa del coinvolgimento di immigrati clandestini che hanno commesso gravi crimini, c'è una crescente sfiducia nei loro confronti da parte della cittadinanza. Come rendere comprensibile ai cileni questa richiesta dei vescovi?

- È necessaria una riflessione personale e comunitaria, che esprimo in sintesi: siamo tutti migranti! Questa nostra patria è molto bella, sotto molti aspetti, ma non è definitiva. Una percentuale significativa di cileni crede in Dio. Una parte dei credenti professa la fede cattolica. Lasciare la propria terra e vivere da stranieri risale alle origini della razza umana, come attestano le Sacre Scritture, così come la vita familiare di nostro Signore. È quindi necessario guardare alla testimonianza biblica.

Dall'altro lato, per restituire una mano. In tempi difficili della nostra storia, centinaia di uomini e donne cileni sono stati accolti in altre latitudini, rispettati nella loro dignità e trattati con riconoscenza.

Non è giusto collegare criminalità e migrazione. In realtà, migliaia di migranti sono arrivati nel nostro Paese con il desiderio di un futuro migliore per sé e per le proprie famiglie. Stanno contribuendo alla crescita del Paese e condividono nelle nostre comunità la loro fede, le loro tradizioni religiose e la loro speranza.

Cerchiamo di aiutarci a vicenda per costruire la città terrena in comunione e corresponsabilità, contribuendo ciascuno con i propri doni e la ricchezza della propria cultura, ma sempre consapevoli di essere un popolo pellegrino. In questo senso, faccio mio l'appello di Papa Francesco a accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migrantiCiò implica anche il dovuto accompagnamento e sostegno alle comunità che hanno accolto l'arrivo di un gran numero di persone, soprattutto nelle città di confine e nelle grandi città.

L'indagine mostra che dopo il grande calo di fiducia nella Chiesa cattolica nel 2018, c'è stato un lento e costante miglioramento. Da quell'anno, c'è stato un notevole aumento del silenzio dei pastori cattolici. Secondo lei, quanto l'opinione pubblica dovrebbe influenzare i vescovi nel trasmettere il messaggio cristiano?

- Sono consapevole che abbiamo espresso il nostro punto di vista su diverse questioni importanti per il Paese e per la Chiesa. Naturalmente, ci sono i messaggi delle Assemblee della Conferenza episcopale degli ultimi anni, così come i pronunciamenti su questioni specifiche e urgenti o su sfide particolari. Tuttavia, è evidente che molte di queste parole pubbliche sono passate inosservate all'opinione pubblica di fronte alla crisi ecclesiale vissuta e al conseguente calo di fiducia nella Chiesa e nei suoi pastori.

In questo senso, penso che, con una testimonianza di vita coerente e vera di tutto il Popolo di Dio, saremo in grado di attirare altri a Gesù Cristo e al suo messaggio. Allo stesso modo, essere attenti e presenti alla realtà della vita delle persone, ai loro dolori e alle loro gioie, ci permetterà di affrontare i problemi e le difficoltà, di cercare insieme agli altri i modi per risolverli, e quindi di avanzare verso un cammino che permetta alla società di avere nuovamente fiducia. 

A marzo, le principali confessioni religiose cilene - compreso il cattolicesimo - hanno espresso la loro preoccupazione per il deterioramento delle relazioni civili, la crescente insicurezza, la corruzione e l'incapacità degli attori politici di raggiungere accordi. Hanno chiesto un accordo nazionale per risolvere i gravi problemi del Paese. Quali sono le vostre aspettative in merito?

- Un accordo nazionale sarebbe un'istanza privilegiata e urgente per affrontare le grandi sfide che abbiamo come Paese.

Il bene comune ci chiama ad agire in modo corresponsabile di fronte alle enormi sfide che si pongono per quanto riguarda le questioni sopra citate: il deterioramento delle relazioni civili, la crescente insicurezza, la corruzione, l'incapacità degli attori politici di raggiungere un accordo, tra le altre cose.

Il bene del Paese esige che coloro che sono stati investiti di autorità dal popolo siano all'altezza del compito, anteponendo il benessere del popolo ai calcoli elettorali.

Vaticano

Il messaggio del Papa a migliaia di nonni a Roma: "L'amore ci rende migliori".

Papa Francesco ha tenuto un incontro festoso con migliaia di nonni, nipoti e anziani in cui ha sottolineato che "l'amore ci rende migliori, ci arricchisce e ci rende più saggi". Lo ha detto "con il desiderio di condividere la fede sempre giovane che unisce tutte le generazioni, che ho ricevuto da mia nonna, dalla quale ho conosciuto Gesù".  

Francisco Otamendi-27 aprile 2024-Tempo di lettura: 5 minuti

In un'Aula Paolo VI gremita da migliaia di nonni, anziani e nipoti, nel giorno in cui la Chiesa celebra il decimo anniversario della canonizzazione dei Papi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, il Santo Padre ha detto che "l'amore ci rende migliori. Lo dimostrate anche voi, che vi rendete migliori amandovi a vicenda".

"E ve lo dico da "nonno", con il desiderio di condividere la fede sempre giovane che unisce tutte le generazioni. L'ho ricevuto anche da mia nonna, dalla quale ho conosciuto per la prima volta Gesù, che ci ama, che non ci lascia mai soli, e che ci incoraggia a essere vicini gli uni agli altri e a non escludere mai nessuno".

Il Pontefice ha poi raccontato una storia familiare di sua nonna. "Da lei ho sentito la storia di quella famiglia in cui c'era un nonno che, siccome non mangiava più bene a tavola e si sporcava, lo hanno buttato fuori, lo hanno messo a mangiare da solo. Non era una cosa bella da fare, anzi era molto brutta! Così il nipote passò qualche giorno con il martello e i chiodi e quando il papà gli chiese cosa stesse facendo, lui rispose: "Sto costruendo un tavolo per farti mangiare da solo quando sarai vecchio!". Questo è ciò che mi ha insegnato mia nonna e da allora non l'ho mai dimenticato. 

La povertà della frammentazione e dell'egoismo

"Non dimenticatelo nemmeno voi, perché solo stando insieme con amore, senza escludere nessuno, si diventa migliori, più umani", ha continuato. "E non solo, ma si diventa anche più ricchi. La nostra società è piena di persone specializzate in molte cose, ricca di conoscenze e di mezzi utili per tutti. Tuttavia, se non viene condivisa e ognuno pensa solo per sé, tutta la ricchezza si perde, anzi, diventa un impoverimento dell'umanità".

"E questo è un grande rischio per il nostro tempo: la povertà della frammentazione e dell'egoismo. Pensiamo, ad esempio, ad alcune espressioni che usiamo: quando parliamo del "mondo dei giovani", del "mondo dei vecchi", del "mondo di questo vecchio"... Ma il mondo è uno solo! Ed è fatto di tante realtà che sono diverse proprio perché possano aiutarsi e completarsi a vicenda: le generazioni, i popoli. Tutte le differenze, se armonizzate, possono rivelare, come le facce di un grande diamante, il meraviglioso splendore dell'uomo e della creazione".

Attenzione agli atteggiamenti che creano solitudine

In un clima di affetto e di particolare emozione per il Papa, Francesco ha ricordato che "a volte sentiamo frasi come "pensa a te stesso, non hai bisogno di nessuno!". Sono frasi false, che ingannano le persone facendo credere che sia bene non dipendere dagli altri, vivere da soli come isole, mentre sono atteggiamenti che creano solo molta solitudine. Come ad esempio quando, a causa della cultura dell'usa e getta, gli anziani rimangono soli e devono trascorrere gli ultimi anni della loro vita lontano da casa e dai loro cari". 

Riflettiamo un attimo, ha incoraggiato: "Ci piace questo? Non è forse molto meglio un mondo in cui nessuno debba temere di finire i propri giorni da solo? È chiaro che lo è. Allora costruiamolo insieme questo mondo, non solo elaborando programmi di cura, ma coltivando progetti di esistenza diversi, in cui gli anni che passano non siano visti come una perdita che sminuisce qualcuno, ma come una risorsa che cresce e arricchisce tutti".

Ai nipoti: i nonni, la memoria del mondo

Cari nipoti, i vostri nonni sono la memoria di un mondo senza memoria, e "quando una società perde la memoria, è finita". Ascoltateli, soprattutto quando vi insegnano con il loro amore e la loro testimonianza a coltivare gli affetti più importanti, che non si ottengono con la forza, non appaiono con il successo, ma riempiono la vita".

Il Papa ha concluso. "Non è un caso che siano stati due anziani, mi piace pensare a loro come a due nonni, Simeone e Anna, a riconoscere Gesù quando fu portato al Tempio di Gerusalemme da Maria e Giuseppe (cfr. Lc 2,22-38). Lo accolsero, lo presero in braccio e capirono - solo loro - cosa stava accadendo: che Dio era lì, presente, e li guardava con gli occhi di un bambino. Solo loro capirono, quando videro il piccolo Gesù, che era venuto il Messia, il Salvatore che tutti aspettavano".

"Gli anziani vedono lontano, perché hanno vissuto tanti anni", ha concluso, "e hanno molto da insegnare: per esempio, quanto è brutta la guerra. Io, tanto tempo fa, l'ho imparato da mio nonno, che aveva vissuto la Prima guerra mondiale e che, attraverso i suoi racconti, mi ha fatto capire che la guerra è una cosa orribile. Cercate i vostri nonni e non emarginateli, per il vostro bene: "L'emarginazione degli anziani [...] corrompe tutte le stagioni della vita, non solo la vecchiaia" (Catechesi, 1 giugno 2022)".

Il Papa, "nonno" del mondo

L'evento è iniziato un'ora e mezza prima dell'arrivo del Papa, con la testimonianza del cosiddetto "nonno d'Italia", l'attore Lino Banfi, e del cantante Al Bano, insieme a monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, che ha presieduto la Commissione italiana per la riforma dell'assistenza sanitaria e sociale agli anziani (o Terza età), creata nel 2021 dal Ministero della Salute del Governo italiano. 

Questa commissione ha lanciato un Lettera sui diritti degli anziani e i doveri della comunità, su cui ha riferito Omnes. Monsignor Paglia ha definito oggi Lino Banfi il nonno dell'Europa, che a sua volta ha definito Papa Francesco il "nonno del mondo".

Umanizzare il mondo

"Vogliamo cercare di umanizzare il mondo con l'affettività, per curarci dall'isolamento e dalla solitudine", ha detto questa settimana, nel presentazione Mario Marazziti, presidente della Fondazione Italiana Età Grande che, ispirandosi ai valori cristiani ed evangelici, si propone di promuovere e garantire i diritti degli anziani e i correlativi doveri della comunità.  

"Con l'iniziativa vogliamo dare una nuova visione della vecchiaia", ha detto monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita. La vecchiaia "non è uno spreco, un peso, ma una risorsa e non è estranea a tutte le altre età della vita. Vogliamo partire da qui per riscoprire il patrimonio della terza età, dando la parola a nonni e nipoti, tra i quali c'è una speciale sintonia, complicità e dimensione affettiva che non esiste tra le altre generazioni". 

Maggiore attenzione agli anziani

"Gli anziani devono capire che possono ancora dare molto", ha aggiunto, spiegando che "in Italia, ad esempio, sono 14 milioni, ma per loro non c'è una riflessione politica, economica, religiosa e culturale". E se il Papa, con un ciclo di diciannove catechesi, ha indicato come vivere la terza età e ha istituito la Giornata mondiale dei nonni, mentre lo Stato italiano, con la legge 33 del 2023 sulla riforma della non autosufficienza, si è impegnato a riorganizzare l'assistenza agli anziani, la speranza è che anche in altre nazioni cresca l'attenzione verso le generazioni più anziane. 

Nonni e nipoti, il calore tra le generazioni

"La dimensione della vecchiaia", a suo avviso, "diventa decisiva per riprendere, attraverso il legame con i nipoti, il calore con le altre generazioni", ha detto monsignor Paglia. "Nonni e nipoti sono le due generazioni estreme che non possono vivere senza quelle intermedie. Questo è un insegnamento che adulti e giovani devono ascoltare".

L'autoreFrancisco Otamendi

Cultura

Pietà mariana, natura e cultura a Montserrat

Oltre a essere un santuario mariano, il monastero di Montserrat è una meta di grande interesse turistico, sia per la sua importanza storica e la sua architettura, sia per il suo ambiente naturale, che offre numerose possibilità agli amanti della natura.

Enric Bonet-27 aprile 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

La basilica del XIX secolo, lo spazio audiovisivo Montserrat al chiuso o il museo del santuario, con opere di Caravaggio, El GrecoPicasso, Dalí e Monet sono alcuni dei luoghi essenziali da visitare nel santuario. Vi sono anche il rosario monumentale e numerosi sentieri escursionistici per godersi il paesaggio.

Viaggio e approccio

Una delle attrazioni di Montserrat è il viaggio verso la montagna stessa, che può essere effettuato in treno da Barcellona. L'avvicinamento da Monistrol de Montserrat al santuario può essere fatto collegandosi a un pittoresco treno che sale per 600 metri in circa cinque chilometri. Si tratta della famosa ferrovia a cremagliera. A Monistrol c'è un ampio parcheggio, se si preferisce arrivare in auto.

Alla fermata prima di Monistrol, è possibile prendere la funivia, un altro modo per raggiungere il santuario. Questa "funivia di Montserrat", come viene chiamata, compie il tragitto in cinque minuti e offre una vista unica della montagna. Naturalmente, si può anche arrivare in auto fino al parcheggio del santuario.

Basilica, atrio e musei

Una volta arrivati, la visita alla Vergine è d'obbligo. Si entra nella cappella, dove la si può venerare. La basilica è una ricostruzione del XIX secolo dei resti della chiesa gotica della fine del XVI secolo. È molto riccamente decorata, soprattutto la zona della cappella di Santa Maria. L'atrio della basilica è dominato dalla facciata neoplatonica del tempio del 1901, circondata da edifici. Dopo la guerra civile, fu costruita una nuova facciata per racchiudere il cortile. Essa contiene rilievi che alludono alla proclamazione del dogma dell'Assunzione, a San Benedetto e alla rappresentazione dei monaci martirizzati in quella guerra.

Un'iscrizione sulla facciata riporta una frase attribuita al vescovo Torres i Bages, che riassume lo spirito del catalanismo cattolico di cui Montserrat è stato l'epicentro: "Catalunya serà cristiana o no serà" (la Catalogna sarà cristiana o non lo sarà).

Presso l'ufficio informazioni si trovano le indicazioni per lo spazio audiovisivo intitolato Montserrat puertas adentro, che introdurrà i pellegrini alla montagna, al monastero e al santuario.

Montserrat ha anche un museo che contiene un'importante collezione d'arte con opere di Caravaggio, El Greco, Rusiñol, Casas, Picasso, Dalí, Monet... e alcuni resti archeologici provenienti dal Medio Oriente.

Rosario monumentale e percorsi

Dopo le disgrazie del XIX secolo, il mondo culturale catalano si impegnò per il restauro di Montserrat e, grazie a ciò, molte opere letterarie e artistiche della fine di quel secolo furono dedicate alla Vergine.

Abbiamo già citato la creazione di molti poeti e scrittori di quegli anni. Anche il mondo delle arti plastiche volle contribuire. Così, tra il 1896 e il 1916, fu costruito un rosario monumentale sulla strada che porta dal Santuario alla Grotta Santa. Lungo il percorso, gruppi scultorei rappresentano ciascuno dei quindici misteri. A questo progetto parteciparono artisti di rilievo come Gaudí, Puig i Cadafalch, Sagnier, Llimona, i fratelli Vallmitjana e altri. Si tratta di una piacevole passeggiata fino al luogo di ritrovamento dell'immagine, che unisce armoniosamente natura e arte.

L'escursionismo è un ottimo complemento alla visita di Montserrat. La montagna è ricca di sentieri che collegano eremi e punti panoramici. Un'escursione tradizionale è la salita a Sant Jeroni (1237 metri), la vetta della catena montuosa; si può anche combinare con la cremagliera di Sant Joan, un percorso circolare di poco più di due ore. Il santuario può essere scalato anche a piedi lungo i sentieri che partono da Monistrol. Il Patronat de la Montaña propone alcuni itinerari sul suo sito web.

Il coro e il Virolai

Si ha testimonianza della presenza di un coro - un coro di cantori bambini - fin dall'inizio del XIV secolo, il che lo renderebbe uno dei più antichi d'Europa. I coristi erano pochi fino al XVII e XVIII secolo, quando il coro crebbe e divenne una vera e propria scuola musicale. A metà del XX secolo, i cantori erano cinquanta e iniziarono a registrare dischi e a fare tournée nazionali e internazionali.

Per questo motivo, uno dei momenti essenziali di una visita a Montserrat è quando l'Escolania esegue il Save e il Virolai.

Il Virolai è la musicalizzazione del poema a Santa Maria di Montserrat che Jacint Verdaguer compose per il millenario (1880) del ritrovamento della Vergine. Nell'ambito degli eventi programmati è stato indetto un concorso al quale sono state presentate più di sessanta versioni musicali del poema. Il vincitore fu Josep Rodoreda, che ricevette il premio corrispondente. Da allora, il Virolai, il cui testo è bellissimo, fa parte del patrimonio culturale di ogni catalano.

L'autoreEnric Bonet

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Cultura

Montserrat, "el nostre Sinai", un simbolo della fedeltà di Maria.

Nostra Signora di Montserrat si festeggia il 27 aprile. Il suo santuario si trova vicino alla città di Barcellona, in un'enclave di grande bellezza. Secondo la tradizione, questo monastero mariano fu costruito nel luogo in cui fu miracolosamente trovata un'immagine della Vergine.

Enric Bonet-27 aprile 2024-Tempo di lettura: 7 minuti

Il percorso storico del monastero Montserrat non è stata priva di difficoltà. All'inizio del XIX secolo le truppe francesi la distrussero quando tentarono di invadere la Spagna. Alla fine, però, il santuario è stato ricostruito e oggi è uno dei più visitati della regione.

La storia

A circa 40 chilometri da Barcellona si trova uno dei luoghi più visitati della Catalogna. Un'impennata del terreno che dà origine a una catena montuosa dalla morfologia unica. L'immaginario collettivo ha visto una montagna segata da un grande che ha voluto darle una forma unica. È qui che è iniziata la storia di Santa Maria de Montserrat.

Da dove viene questa immagine?

Sardà i Salvany, nel suo "Montserrat. Noticias históricas", 1881, ciò che la tradizione aveva tramandato sulla scoperta dell'immagine: "Nell'anno 880, in una delle deliziose sere di aprile, il sabato 25 [sic] per l'esattezza, nell'ora in cui l'astro del giorno lascia il posto alla malinconica luce della regina della notte, alcuni pastori del vicino villaggio di Olesa stavano custodendo le loro greggi ai piedi di Montserrat, del tutto ignari della grande felicità che la Provvidenza stava per regalare loro. Quando erano più distratti, videro alcune stelle brillanti scendere dal cielo a un'estremità del monte e nascondersi nell'angolo orientale della montagna, sul lato che cade sul Llobregat. Confusi e spaventati, lo furono ancora di più quando, per diversi sabati consecutivi alla stessa ora, furono sorpresi dalla stessa visione, e negli ultimi fu offerta loro accompagnata da un canto molto sommesso.

Essi comunicarono l'evento ai loro padroni, i quali lo osservarono e lo comunicarono immediatamente al parroco di Olesa, poiché il luogo era sotto la sua giurisdizione". Secondo la stessa tradizione, l'immagine che il cielo allora indicava era stata nascosta all'inizio dell'VIII secolo, nel 717, a fronte della vicina invasione saracena di Barcellona. Si trattava di un'immagine - di origine gerosolimitana - che era già venerata a Barcellona, nella chiesa di San Giusto e San Pastore... anche se qui ci muoviamo nel campo della tradizione non storica.

La storia prosegue più o meno come quella delle altre vergini ritrovate. Il vescovo arriva con un seguito per spostare l'immagine, che a pochi metri dalla grotta diventa immobile. Questo fu preso come un segno della predilezione della Vergine per questo luogo e l'immagine rimase lì. La prima menzione documentaria di Montserrat risale all'888: Wilfredo il Peloso dona l'eremo di Santa Maria al monastero di Ripoll; e questa non è più una leggenda.

Le prime cappelle

Dopo la scoperta dell'immagine della Vergine Maria nella grotta, i primi eremiti iniziarono a stabilirsi nella zona. Questi uomini pii vivevano in piccole celle o grotte sparse tra le montagne, conducendo una vita austera dedicata alla preghiera e alla penitenza.

Nel corso del tempo, la fama della Vergine di Montserrat crebbe e, con l'aumento del numero di eremiti, vennero fondati nuovi eremi e celle in diversi punti della montagna di Montserrat. Questi eremi erano collegati da sentieri e strade che permettevano agli eremiti di condividere momenti di preghiera e di comunità.

Sappiamo che alla fine del IX secolo esistevano quattro eremi: quelli di Santa María, San Acisclo, San Pedro e San Martín.

La devozione alla Vergine di Montserrat crebbe e divenne evidente la necessità di una comunità religiosa più strutturata, che portò alla fondazione ufficiale del Monastero di Montserrat nell'XI secolo, nel 1025, nell'eremo di Santa Maria. Circa cinquant'anni dopo, il Monastero di Santa Maria de Montserrat ebbe il proprio abate. Degli eremi originari, l'eremo di San Acisclo si trova ancora nel giardino del monastero.

Consolidamento

Nel XII-XIII secolo fu costruita una chiesa romanica e a questa data risale l'intaglio dell'attuale Vergine. Il monastero e i miracoli concessi dalla Vergine assunsero gradualmente un nome e apparvero in alcuni libri, tra cui i Cantici di Santa Maria di Alfonso X, che resero il monastero molto popolare e divenne un noto luogo di pellegrinaggio, con un corrispondente aumento delle donazioni e delle entrate che lo fecero crescere. Nel XV secolo il monastero divenne un'abbazia indipendente, fu costruito un chiostro gotico e fu installata una tipografia.

Alla fine del XVI secolo, nel 1592, fu consacrata la chiesa attuale, più grande per accogliere un maggior numero di pellegrini.

Declino e distruzione

L'abbazia di Montserrat subì una serie di calamità nel XIX secolo. Il monastero fu saccheggiato e distrutto nel 1811 dalle truppe francesi che avevano invaso la Spagna. Xavier Altés - un monaco che fu bibliotecario per molti anni - spiegò che i francesi erano furiosi con l'abbazia perché era diventata il simbolo che Dio avrebbe aiutato i contadini della zona, che avevano già vinto i primi due attacchi francesi. La terza volta, però, i francesi vinsero e bruciarono tutto: la biblioteca, gli archivi e la chiesa, le pale d'altare, i dipinti... Era un modo per dire: vedete come è finito ciò che pensavate vi avrebbe salvato?

La Vergine si salvò perché era nuda. Nel camerino fu collocata una copia, che fu fatta a pezzi. L'originale era nascosto in una delle cappelle. I francesi lo trovarono, ma poiché era privo degli abiti con cui le sculture erano adornate all'epoca, non lo riconobbero e, dopo averlo profanato, lo lasciarono lì. Altés conclude che la stampa dell'epoca disse che si sarebbe dovuto affiggere un cartello con la scritta: "Qui c'era Montserrat".

E come se non bastasse, nel 1835 le leggi di disconoscimento portarono lo Stato a confiscare quel poco di valore rimasto e a ordinare ai monaci di lasciare il complesso, che rimase deserto e mezzo in rovina. Tanto che il vescovo offrì ai monaci un appezzamento di terreno a Collbató, rinunciando al monastero, ma essi non accettarono; volevano rimanere a Montserrat, anche se in queste condizioni pietose.

Rinascere

Montserrat è un simbolo della forza e della fedeltà della Madonna. Quando molti cattolici non credevano alla possibilità di restaurare il santuario, Santa Maria fu fedele e fece il miracolo. Nell'ottobre 1879 ci fu un incontro a Montserrat: l'abate Muntades con Jaume Collell, Jacint Verdaguer e Sardà i Salvany. Avrebbero approfittato del millesimo anniversario della scoperta dell'immagine per ravvivare il fervore e l'aiuto per la ricostruzione.

Verdaguer compose il Virolai per il millennio. L'anno successivo, continuando lo slancio del millennio, fu organizzata l'incoronazione canonica di Nostra Signora di Montserrat.

Un secolo e mezzo dopo, quel monastero in rovina è un luogo bellissimo; uno dei monumenti più visitati della Catalogna, che accoglie quasi tre milioni di visitatori all'anno. Il luogo in cui si sarebbe dovuto affiggere un cartello "qui c'era Montserrat" è ora pubblicizzato in tutte le guide turistiche e religiose della Catalogna. Santa Maria non si smentisce mai.

L'immagine

Il fulcro, l'origine e il motore di tutto ciò che accade a Montserrat è Santa Maria. L'immagine che è stata trovata e che si trovava nell'eremo di Santa Maria non è conservata oggi.

A questa devozione è subentrata l'immagine attuale, sopravvissuta a tutte le vicissitudini di cui abbiamo parlato nella breve storia sopra riportata. Si tratta di una scultura romanica della fine del XII o dell'inizio del XIII secolo, alta circa 95 centimetri e realizzata in legno di pioppo, che presiede il camerino del Santuario.

L'immagine è conosciuta come "La Moreneta" e questo soprannome è noto fin dal XV secolo, motivo per cui tutta l'iconografia e la letteratura su di lei ci hanno portato a pensare a una Vergine nera. Nel 2001 - ha spiegato l'abate Solé in un'intervista - è stato condotto uno studio per individuare gli strati nella policromia dell'immagine e per cercare di chiarire se fosse nera fin dall'inizio.

Lo studio ha rivelato tre livelli di colore. Il livello più antico era uno strato originariamente bianco: è il pigmento che si usava all'epoca per imitare il colore della pelle, e per prepararlo si usava una miscela che comprendeva piombo, che con il tempo, il fumo e l'ossidazione si annerì; ma lo fece in modo irregolare.

Per questo motivo, nel XV secolo gli fu applicato un pigmento per renderlo marrone, uniformando le aree scure.

Durante la guerra d'indipendenza, l'immagine, che era stata nascosta in un eremo, fu trovata dai soldati. Non fu identificata come l'originale, ma fu profanata. Si dice che sia stata lasciata appesa a una quercia durante alcuni mesi molto piovosi. Quando i monaci la trovarono, videro che il Bambino Gesù era stato strappato ed era scomparso. L'attuale Gesù Bambino - più barocco che romanico - risale a questo periodo, così come l'ultimo strato di pigmento - più scuro - che è stato applicato per ripristinare i danni al colore.

L'immagine, dice l'abate Solé, evoca due figure bibliche. L'abito di Santa Maria è dorato e richiama la sposa del Salmo 44 (45): "Alla tua destra sta la regina, ingioiellata d'oro di Ofir. [...] vestita di perle e di broccato". Ci parla dell'amore intenso, quasi sponsale, di Dio per Maria quando le ha affidato la missione di essere la Madre di suo Figlio. La seconda figura è quella della sposa del Cantico dei Cantici, che dice: "Sono scura ma bella, o figlie di Gerusalemme". Un testo applicato a una moltitudine di immagini di vergini nere.

Maria è raffigurata mentre tiene nella mano destra una palla, che è quella venerata dai fedeli, che sporge attraverso un foro nel vetro di protezione. Alcuni hanno detto che rappresenta la terra... ma questo è troppo per il XIII secolo, quando si aveva ancora una visione piatta del pianeta. La sfera rappresenta il cosmo, tutto il creato che Maria tiene tra le mani e protegge e, a sua volta, presenta Cristo.

Il bambino è vestito d'oro e incoronato, a ricordare la sua regalità. Nella mano sinistra tiene una pigna. La pigna è il segno della vita che Gesù offre a coloro che lo lasciano entrare nella loro vita. È anche un simbolo dell'unità che Gesù ci dona e in Lui si mantiene.

Benedice con la mano destra. La Vergine è racchiusa in un camerino in cui, in alto, due angeli reggono una corona, rappresentando così il quinto mistero della gloria. La Vergine regina è seduta sul suo trono, ma, come molte immagini romaniche, è lei stessa Sedes Sapientiae: trono della sapienza. Infatti offre il suo grembo a Gesù, il Verbo, la Sapienza.

L'autoreEnric Bonet

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Mondo

Vescovi tedeschi divisi sul "Comitato sinodale".

In spregio al principio sinodale del consenso, la maggioranza dei vescovi tedeschi ha approvato gli statuti del "Comitato sinodale", nonostante l'opposizione di una minoranza di quattro vescovi.

José M. García Pelegrín-26 aprile 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

La Commissione permanente della Conferenza episcopale tedesca (DBK) ha approvato gli statuti del "Comitato sinodale", con il voto contrario del cardinale Rainer Woelki (Colonia) e dei vescovi Gregor Maria Hanke OSB (Eichstätt), Stefan Oster SDB (Passau) e Rudolf Voderholzer (Regensburg), che hanno confermato la loro decisione di non partecipare al Comitato sinodale.

Come si ricorderà, l'idea di introdurre un comitato o una commissione sinodale è nata come risposta alla Rifiuto del Vaticano consentire al "Cammino sinodale" tedesco di istituire un "Consiglio sinodale" permanente, composto da vescovi, sacerdoti e laici, che funga da organo di controllo dell'operato di ciascun vescovo nella propria diocesi e della DBK a livello nazionale. Sia in un lettera del 16 gennaio 2023 come in un altro dei 16 febbraio 2024I principali cardinali della Santa Sede hanno ricordato che un Concilio sinodale "non è previsto dal diritto canonico vigente e, pertanto, una risoluzione in tal senso della DBK sarebbe invalida, con le relative conseguenze giuridiche". Inoltre, hanno messo in dubbio l'autorità che "la Conferenza episcopale avrebbe di approvare gli statuti", dal momento che né il Codice di diritto canonico né lo Statuto della DBK "forniscono una base per questo".

Per aggirare il divieto della Santa Sede, il "Cammino sinodale" ha approvato la creazione di un "Comitato sinodale"... il cui unico scopo è preparare la creazione di un "Consiglio sinodale". Il "Comitato Centrale dei Laici Tedeschi" ZdK ha approvato i propri statuti l'11 novembre 2023; perché questi entrino in vigore, è necessaria l'approvazione da parte della DBK, inizialmente prevista durante l'Assemblea Plenaria del 19-22 febbraio di quest'anno. Tuttavia, in seguito alla già citata missiva dei cardinali Pietro Parolin, Victor M. Fernandez e Robert F. Prevost del 16 febbraio - lettera espressamente approvata da Papa Francesco - in cui si chiedeva di non discuterne in Assemblea Plenaria, la DBK ha deciso di cedere. Durante la sua visita in Vaticano nel marzo 2024, una delegazione della DBK ha accettato di sottoporre il lavoro del "Comitato sinodale" all'approvazione della Santa Sede.

Per questo motivo, in vista dell'approvazione degli statuti del "Comitato sinodale" da parte della maggioranza della DBK, i quattro vescovi sopra citati di Colonia, Eichstätt, Passau e Ratisbona hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui affermano che aspetteranno la fine del Sinodo mondiale della sinodalità per decidere come procedere: "I vescovi di Eichstätt, Colonia, Passau e Ratisbona desiderano continuare il cammino verso una Chiesa più sinodale in linea con la Chiesa mondiale". Ricordano che le obiezioni più volte espresse dal Vaticano all'istituzione di un "Concilio sinodale" in quanto non "compatibile con la costituzione sacramentale della Chiesa" hanno portato al loro rifiuto di partecipare a un "Comitato sinodale", "il cui scopo dichiarato è l'istituzione di un Concilio sinodale".

I quattro vescovi citati "non condividono nemmeno l'opinione giuridica secondo cui la Conferenza episcopale tedesca può essere responsabile del Comitato sinodale se quattro membri della conferenza non sostengono l'organismo". Essi chiariscono quindi che non è la DBK ad essere responsabile del "Comitato sinodale", ma gli altri 23 vescovi diocesani.

Ciò crea una palese incertezza giuridica, dal momento che, secondo la stessa "Via sinodale", i titolari del "Comitato sinodale" avrebbero dovuto essere la ZdK e la DBK. Pertanto, da un punto di vista giuridico, questo "Comitato sinodale" è viziato o, per dirla in modo meno giuridico, non esiste, poiché opera in un vuoto giuridico, è una mera simulazione. Oltre al fatto che una decisione "a maggioranza" contraddice il principio stesso della sinodalità, che cerca il consenso; e con il rifiuto della minoranza, è chiaro che non c'è consenso all'interno della DBK in relazione al cosiddetto "Comitato sinodale".

D'altra parte, resta da vedere come si possa conciliare la partecipazione di 23 vescovi a un "Comitato sinodale" finalizzato alla costituzione di un "Consiglio sinodale" vietato dalla Santa Sede con l'affermazione che questi vescovi sottoporranno il lavoro del "Comitato sinodale" all'approvazione della Santa Sede. Trovare una soluzione conforme al Diritto Canonico per il "Comitato Sinodale" sembra essere una ricerca della quadratura del cerchio.

Vaticano

Il Card. Parolin e le “Cinque domande che agitano la Chiesa”

Il 24 aprile il cardinale Pietro Parolin ha presentato il libro "Cinque domande che scuotono la Chiesa" del giornalista vaticanista Ignazio Ingrao del TG1 RAI.

Hernan Sergio Mora-26 aprile 2024-Tempo di lettura: 4 minuti

Sua eccellenza il cardinale Pietro Parolin, al finalizzare la presentazione del libro “Cinque domande che agitano la Chiesa”, del giornalista vaticanista Ignazio Ingrau, del TG1 RAI, ha risposto a Omnes: “La cosa più bella di questo libro è che pone sul tappeto i grandi interrogativi che ci portiamo dietro tutti, invece sulle risposte... (ha soltanto scosso un po' la testa come dicendo di essere meno convinto).

Il libro di 160 pagine edito dalla editrice San Paolo è stato presentato a Roma questo 24 aprile, nella sede del Ministero della Cultura, alla presenza di ministri, ambasciatori, autorità civili e religiose, pone cinque domande e quindi il cardinale Parolin ha ricordato un'altra opera, quella 'Delle cinque piaghe della Chiesa' del filosofo e teologo Antonio Rosmini.

Invece “qui si tratta ovviamente, di nuove problematiche legate all'attualità dei tempi, che però -mi piace notarlo- vanno nella stessa direzione, che è quella 'riforma della Chiesa' promossa da Papa Francesco”, ha assicurato.

La Chiesa, come sappiamo, è 'semper reformanda'", ha sottolineato il cardinale, "cioè deve essere riportata alla sua forma corretta, perché, come dice la Costituzione conciliare 'La Chiesa è 'semper reformanda'".Lumen GentiumCristo è santo, innocente, immacolato... [quindi] la Chiesa, che ha in seno i peccatori, è santa, ma allo stesso tempo è "sempre bisognosa di purificazione", perciò "avanza continuamente sulla via della penitenza e del rinnovamento"".

Sua eccellenza ha invitato a sfogliare il libro presentato senza dimenticare qualcosa di simile, la “situazione di turbamento e di spavento che ritroviamo nel Vangelo di Matteo: «Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: "Maestro, non t'importa che siamo perduti?"».

“Eppure noi, a differenza dei discepoli” ha proseguito il cardinale Parolin “sappiamo che lo Spirito Santo, cioè il respiro di Dio donato da Gesù sulla croce e poi nel giorno di Pentecoste, rende la Chiesa anzitutto la Sua Chiesa, capace cioè di resistere alle intemperie dei sommovimenti culturali e ai peccati degli uomini e delle donne che le appartengono”.

Il porporato si è poi addentrato riportando quanto indicato nei capitoli del libro.

Chiesa in movimento

Sulla prima domanda: dove è arrivata la Chiesa in uscita di Bergoglio; quanto la Chiesa è lontana dalla realtà di oggi, nonostante gli sforzi?, il cardinale indica come l'autore descrive in una "fredda teoria delle cifre” numeri poco allettanti sulla Chiesa in Europa e America, e come Benedetto XVI si domandava dove fosse finito lo slancio del Concilio Vaticano II.

"Eravamo felici -disse Benedetto XVI l'11 ottobre 2012- e pieni di entusiasmo. Il grande Concilio Ecumenico era inaugurato; eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa, una nuova Pentecoste, con una nuova presenza forte della grazia liberatrice del Vangelo".

Il libro, indica anche la visione di papa Francesco nella Evangelii Gaudium, come un programma di pontificato: “... privilegiare azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici". Processi che l'Autore “vede concretizzarsi anche nella scelta da parte del Papa di nuovi collaboratori ai quali viene chiesto di esplorare strade nuove”.

Dal libro, il cardinale fa notare che in questo contesto il vaticanista Ingrao critica "la teologia della scrivania, figlia di una logica fredda e dura che cerca di dominare tutto", citando come esempio la Dichiarazione "...".Fiducia Supplicans"Il Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede ritiene che si tratti di un testo che "rimane sempre aperto alla possibilità di chiarire, arricchire, migliorare e forse permettere di essere meglio illuminato dagli insegnamenti di Francesco".

La prima domanda si chiude -spiega sua eminenza- con un affresco sui giovani di papa Francesco che vengono definiti dall'autore, "degli esploratori, degli avamposti nella società distratta dei social per risvegliare sentimenti veri, la voglia di autenticità, la capacità di sognare", con sensibilità ecologica e con profonda attenzione ai tempi e alle sfide del pontificato.

Diminuzione della pratica religiosa

La seconda domanda fa riferimento a due elementi problematici: la decrescente pratica religiosa nel mondo. In particolare, l'autore si sofferma sull'America Latina dove la Chiesa cattolica non è più la prima per numero di fedeli ma è stata superata da quelle pentecostali. Senza dimenticare gli interventi di Benedetto XVI e di Francesco che con determinazione affermano come la Chiesa cresca non per proselitismo ma per attrazione ovvero per forza testimoniale, ha spiegato il cardinale.

Apertura ai laici

Sua eminenza sulla “terza domanda, se l'apertura ai laici e alle donne, se è reale o solo di facciata”, indica come l'autore sottolinea una serie di esperienze e il Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità. E infine, come vengono ricordati i ruoli apicali che oggi sono ricoperti, all'interno della Curia Romana, proprio da donne.

Emergenze antropologiche

“Le urgenze antropologiche aprono alla quarta domanda. Inizio e fine vita, le frontiere della medicina e le questioni del gender: infatti, scrive Ingrao, «non si tratta di cercare risposte che siano più o meno al passo con i tempi o schierate in difesa della morale tradizionale. Quanto piuttosto di far maturare un nuovo umanesimo che, radicato nel personalismo cristiano, sappia rispondere agli interrogativi di oggi»” , ha spiegato il cardinale.

Cosa succederà con le riforme?

“Giungiamo così all'ultima delle cinque domande, che fine faranno le riforme intraprese da papa Francesco? A cui se ne aggiunge una che suona per alcuni come minaccia e per altri come illusione: "C'è il rischio di un 'inversione di marcia?".

“L'ultimo capitolo -conclude il cardinale Parolin- dedicato a tali interrogativi rimane interlocutorio, come è necessario che sia. Si parla infatti di riforme, come le definisce l'autore, "intraprese" ovvero avviate, in itinere”. Quindi “il discernimento, che non è semplicemente intuito ma frutto di una continua preghiera nello Spirito, indicherà, nel tempo disteso di chi sa essere paziente, come proseguire e cosa rendere istituzionale. Proprio perché è azione dello Spirito non ci potrà essere una inversione di marcia”.

L'autoreHernan Sergio Mora

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Vaticano

Il Papa all’Azione Cattolica Italiana: costriure una “cultura dell’abbraccio”

Papa Francesco riceve i membri dell'Azione Cattolica Italiana in Piazza San Pietro il 25 aprile 2024 prima dell'Assemblea Nazionale. Dalla Terra Santa, il cardinale Pizzaballa invita a superare le polarizzazioni.

Giovanni Tridente-26 aprile 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

Si è tornato a parlare di pace e di speranza come superamento dei tanti conflitti che lacerano varie parti del mondo, a cominciare dalla Terra Santa e dalla martoriata Ucraina. L’occasione è stata data dal raduno nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, che il 25 aprile – Festa per il popolo italiano della Liberazione dal nazifascismo – ha voluto riunirsi attorno a Papa Francesco in un evento dal titolo “A braccia aperte”. L’iniziativa è stata voluta come anteprima della XVIII Assemblea nazionale dello storico organismo associativo italiano nato nel 1867 e ha visto la partecipazione di circa 80 mila soci e simpatizzanti provenienti da tutto il Paese e di ogni età, che si sono ritrovati in Piazza San Pietro per ricevere il saluto, l’incoraggiamento e la benedizione di Papa Francesco. “È in questo mondo e in questo tempo che siamo chiamati ad essere, in virtù del battesimo ricevuto, soggetti attivi di evangelizzazione. Siamo discepoli missionari di un Signore che per il mondo ha dato la vita. Anche la nostra non può che essere a sua volta donata”, ha detto in apertura dell’evento il Vescovo Claudio Giuliodori, Assistente ecclesiastico dell’AC.Braccia aperte".

L'iniziativa, che voleva essere un'anteprima della XVIII Assemblea Nazionale della storica entità italiana, fondata nel 1867, ha visto la partecipazione di circa 80.000 affiliati e sostenitori provenienti da tutto il Paese e di tutte le età, che si sono riuniti in Piazza San Pietro per ricevere il saluto, l'incoraggiamento e la benedizione di Papa Francesco.

"È in questo mondo e in questo tempo che siamo chiamati a essere, in virtù del battesimo ricevuto, soggetti attivi di evangelizzazione; siamo discepoli missionari di un Signore che ha dato la sua vita per il mondo. Siamo discepoli missionari di un Signore che ha dato la sua vita per il mondo e anche la nostra non può che essere donata a sua volta", ha detto monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico dell'AC, in apertura dell'evento.

Cultura dell’abbraccio

In linea con il tema dell’evento, nel suo discorso Papa Francesco ha sottolineato l’importanza di coltivare una “cultura dell’abbraccio” per superare tutti quei comportamenti che tra altre cose portano anche alle guerre: la diffidenza nei confronti degli altri, il rifiuto e la contrapposizione che diventano violenza. Abbracci mancati o rifiutati, pregiudizi e incomprensioni che fanno vedere l’altro come nemico.

“E tutto ciò purtroppo, in questi giorni, è sotto i nostri occhi, in troppe parti del mondo! Con la vostra presenza e con il vostro lavoro, invece, voi potete testimoniare a tutti che la via dell’abbraccio è la via della vita”, ha detto Francesco.

Quindi l’invito al popolo dell’Azione Cattolica ad essere “presenza di Cristo” in mezzo all’umanità bisognosa, “con braccia misericordiose e compassionevoli, da laici impegnati nelle vicende del mondo e della storia, ricchi di una grande tradizione, formati e competenti in ciò che riguarda le vostre responsabilità, al tempo stesso umili e ferventi nella vita dello spirito”.

Solo in questo modo si possono gettare semi di cambiamento coerenti con il Vangelo, che vadano a incidere “a livello sociale, culturale, politico ed economico nei contesti in cui operate”.

Un altro invito del Papa ha riguardato la collaborazione di tutto il popolo dell’Azione cattolica – ragazzi, famiglie, uomini e donne, studenti, lavoratori, giovani e adulti – a impegnarsi attivamente nel cammino sinodale, per realizzare finalmente l’espressione di una Chiesa che si serve di “uomini e donne sinodali, che sappiano dialogare, interloquire, cercare insieme”.

Attenzione per la Terra Santa

La giornata si era aperta con un videomessaggio del cardinale Pierbattista PizzaballaIl Patriarca latino di Gerusalemme, che ha ringraziato i presenti per aver acceso una luce di riflessione sull'importanza della pace, ha riconosciuto che "dobbiamo evitare che si ripeta nel mondo la divisione che già abbiamo qui", in Terra Santa. Si pensi, ad esempio, alle numerose polarizzazioni, di alcuni contro altri, attraverso una semplificazione che non aiuta a cogliere la complessità della realtà, a quanto sia importante, invece, "costruire relazioni" piuttosto che "erigere barriere".

“È molto doloroso vedere come questa guerra abbia colpito l’animo di tutti, nella fiducia e nel credere che sia ancora possibile fare qualcosa in questa deriva di violenza che sembra non esaurirsi mai”, ha aggiunto il Cardinale. Cosa si può fare? “La prima cosa da fare è pregare, poi è importante parlare della Terra Santa, non lasciare cadere l’attenzione su questo conflitto che sta lacerando la vita di questi popoli”, e di conseguenza “la vita della società in tante altre parti del mondo”. Perché “quando il cuore soffre tutto il corpo soffre”.

Verso una pastorale della pace

A proposito di questi temi, il prossimo 2 maggio lo stesso Cardinale Pizzaballa terrà una lectio magistralis alla Pontificia Università Lateranense, nell’ambito del corso di Teologia della Pace, intitolata “Caratteri e criteri di una Pastorale della Pace”.

L'autoreGiovanni Tridente

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Vocazioni

Natalio Paganelli: "In Sierra Leone, la maggior parte dei sacerdoti sono figli di musulmani".

Il missionario Natalio Paganelli ha vissuto per diciotto anni in Sierra Leone. Lì è stato vescovo della diocesi di Makeni per otto anni, un periodo che è servito da transizione per lasciare la diocesi nelle mani di un vescovo nativo, monsignor Bob John Hassan Koroma.

Loreto Rios-25 aprile 2024-Tempo di lettura: 8 minuti

Natalio Paganelli è un missionario saveriano, di origine italiana, ordinato sacerdote nel 1980. Ha trascorso 22 anni in Messico come missionario, un periodo che ricorda con grande affetto perché era "molto amato", come lui stesso dice. Dopo un periodo a Londra, nel 2005 è arrivato in Sierra Leone, dove è rimasto fino al 2023. In questa intervista, con il suo accento italo-messicano, ci racconta del suo periodo in Sierra Leone e di come la sua fase di vescovo nella diocesi di Makeni sia stata un momento di transizione per lasciare la diocesi nelle mani di un vescovo locale.

Come è arrivato in Sierra Leone e qual è stato il suo lavoro lì?

Ho sempre avuto nel cuore il desiderio dell'Africa. Sono entrato nel seminario saveriano all'età di undici anni, dopo le scuole elementari, e l'Africa è sempre stata nella mia mente, per quello che avevo letto e visto in alcuni film. Dopo il mio incarico in Messico, sono arrivato in Sierra Leone il 15 agosto 2005.

Nel 2012, con mia grande sorpresa, mi è stato chiesto di essere l'Amministratore Apostolico della Diocesi di Makeni. Perché? La diocesi di Makeni è stata fondata dai Saveriani nel 1950 come missione, come diocesi nel 1962, anche se la prima evangelizzazione è stata fatta dai "Padri dello Spirito Santo", i "padri spiritani", ma con presenze sporadiche, non c'era una comunità religiosa di sacerdoti costantemente presente.

Quando i Saveriani arrivarono, usarono una strategia molto interessante. Poiché nel nord del Paese non c'erano quasi scuole, iniziarono a fondarle, prima le scuole primarie e poi le scuole secondarie. Attraverso le scuole, l'evangelizzazione entrò in molte famiglie.

Il nord del Paese è musulmano, i cattolici sono 5 %, ma finora, che è iniziato un po', non c'è stata alcuna presenza fondamentalista. Può funzionare bene, e attualmente la diocesi di Makeni ha circa 400 scuole primarie, 100 scuole secondarie, 3 scuole professionali e, dal 2005, la prima università privata del Paese, con molte facoltà.

I primi vescovi sono stati stranieri, finché nel 2012 è stato nominato vescovo di Makeni un sacerdote locale, ma proveniente da un'altra diocesi, monsignor Henry Aruna, di etnia Mendé.

Ci fu una reazione molto forte nella diocesi di Makeni, dove la maggioranza Temné, il secondo gruppo, i Limba, e il terzo gruppo, i Loko, non accettarono la nomina. Non è stato possibile fare l'annuncio in diocesi e, un anno dopo, l'ordinazione. Poi la Santa Sede ha scelto me, non perché mi conoscesse, infatti non mi conoscevano a Roma, ma perché ero il superiore dei Saveriani. Credo che abbiano scelto il superiore della congregazione che aveva fondato la diocesi, per cercare di risolvere la questione. Si sperava che in breve tempo le cose si sarebbero risolte, ma non fu possibile. Dopo tre anni, Papa Francesco ha deciso di cambiare il vescovo eletto di Makeni. Lo ha inviato come ausiliare nella sua diocesi e poco dopo è diventato vescovo, perché il vescovo residente è morto.

Mi ha nominato amministratore apostolico con funzioni episcopali, per poter agire come vescovo. Ho trascorso otto anni come amministratore apostolico e vescovo. Il mio compito era quello di aprire la strada a un sacerdote locale per essere ordinato vescovo, cosa che abbiamo ottenuto il 13 maggio dello scorso anno, 2023, con il vescovo Bob John Hassan Koroma, che è stato il mio vicario generale durante gli otto anni del mio servizio. Egli ha preso possesso della diocesi il 14 maggio 2023.

È stato scelto il 13 perché è il giorno di Fatima e la diocesi e la cattedrale sono dedicate alla Madonna di Fatima. Quel giorno il vescovo Henry Aruna è venuto a concelebrare l'ordinazione del nuovo vescovo, ed è stato accolto con un grande applauso, perché quello che è successo non è stato qualcosa contro di lui, contro la sua persona, perché era stato insegnante nel seminario di molti dei nostri sacerdoti, e segretario della Conferenza episcopale per quasi dieci anni, aveva fatto un grande servizio. È stata una questione etnica.

È interessante notare che il nuovo vescovo è un convertito, proveniente da una famiglia musulmana.

Sì, entrambi i suoi genitori erano musulmani. È Limba, che è il secondo gruppo etnico della diocesi, ma parla bene il Temne, la lingua del primo gruppo, perché è cresciuto a Makeni. Sua madre rimase vedova molto presto e lui fu accolto da una zia, sorella di suo padre, che era cristiana e infatti ha un figlio sacerdote, un po' più grande del vescovo Bob John. Ha ricevuto la sua educazione cristiana dalla zia, che era un'infermiera, una donna molto generosa e molto saggia. Di solito, quando i figli vanno a vivere con altri parenti, assumono la religione della famiglia. Ma quando lui studiava a Roma, sua madre si è convertita senza il suo intervento, e praticamente tutta la famiglia ora è cattolica.

Monsignor Bob John Hassan Koroma ©OMP

Il vescovo ha un'ottima formazione accademica. A Roma ha studiato al Pontificio Istituto Biblico e poi ha conseguito il dottorato in Teologia Biblica all'Università Gregoriana. Ha svolto un servizio straordinario come professore in seminario ed è stato parroco in due parrocchie della diocesi, tra cui la cattedrale.

Ci sono difficoltà nel paese a convertirsi a un'altra religione?

La maggior parte dei sacerdoti sono figli di musulmani. Perché? Per via delle scuole. La maggior parte di loro, frequentando le nostre scuole, che sono molto prestigiose, grazie a Dio, entra in contatto con il cristianesimo, con i sacerdoti, e a un certo punto chiede il battesimo e fa un corso catecumenale nella scuola stessa. In genere non c'è opposizione da parte dei genitori. Anzi, diciamo che in Sierra Leone c'è un'ottima tolleranza religiosa. Questa è una delle cose più belle che possiamo esportare nel mondo, non solo i diamanti, l'oro, gli altri minerali.

Dobbiamo crescere nel rispetto reciproco, e questa è la cosa più bella, l'importante è essere coerenti con la fede che si professa, e la fede propone sempre cose buone, tutte le religioni. In 18 anni non ho mai avuto un solo problema con i miei fratelli musulmani. L'unico grosso problema che ho avuto è stato con i capi tribù musulmani, perché volevano scuole cattoliche in ogni villaggio, ma io non potevo costruire una scuola cattolica in ogni villaggio, era impossibile, perché 400 erano un numero molto alto.

Ci sono molte vocazioni in Sierra Leone?

La Sierra Leone non ha un numero esagerato di vocazioni, ma abbiamo ormai più di cento sacerdoti nelle quattro diocesi. Makeni ha 45 sacerdoti, un numero non altissimo, ma consistente e destinato a crescere. Non è come in Europa, dove quelli che arrivano sono meno di quelli che partono.

A Makeni, soprattutto i sacerdoti stanno crescendo, ma le vocazioni religiose, in particolare quelle femminili, stanno crescendo un po' meno. Questo è più complicato, perché nella loro cultura le donne non sono molto considerate, quindi è più difficile per loro pensare alla vita consacrata. Ce ne sono alcune, ma non un numero elevato. Quindi è lì che dobbiamo crescere, perché anche la presenza delle religiose nelle parrocchie è molto utile. Era uno dei miei obiettivi e sono riuscito, su 26 parrocchie, a mettere comunità religiose in dieci, grazie a Dio.

Come si affronta l'evangelizzazione in un Paese in cui i cattolici rappresentano circa il 5 % della popolazione?

Usiamo la scuola come strumento di evangelizzazione, con grande rispetto. Poi c'è anche la carità: la diocesi ha un ospedale dove tutti sono curati, recuperando un minimo perché l'ospedale non collassi, e le suore di Madre Teresa di Calcutta servono i più poveri, quelli che nessuno vuole, quelli che sono in situazioni disperate.

E quando ci sono situazioni molto difficili, la Chiesa interviene sempre. Ad esempio, con l'Ebola. Ho vissuto i due anni di Ebola, 2013-2015, che sono stati molto, molto dolorosi per noi. Abbiamo perso, credo, 1.500 persone nella diocesi. Ma quello che abbiamo sofferto di più è stato non poterle assistere, non poter parlare con loro, non poterle seppellire in modo dignitoso. È stato un dramma per il Paese e per noi, e abbiamo visto molta solidarietà. Mi piace ricordare che tutte le case che erano in quarantena hanno ricevuto aiuto da tutti quelli che erano fuori, musulmani, cristiani, non c'era differenza.

Inoltre, nei villaggi dove il raccolto era in pericolo, le famiglie che non erano in quarantena andavano a lavorare le "milpas", i campi di coloro che erano in quarantena, per poter salvare il raccolto. Abbiamo visto cose meravigliose che sono il frutto dell'evangelizzazione. Poi, anche il contatto personale è molto importante. Faccio un esempio: in alcune parrocchie, dopo Pasqua, si benedice la casa con l'acqua che è stata benedetta nella Veglia Pasquale, e anche i musulmani vogliono che benediciamo la loro casa. Per loro, ogni benedizione viene da Dio. È una cosa molto bella, partecipano con noi al Natale e ci sono famiglie che invitano i loro vicini. E loro, l'ultimo giorno del Ramadan, invitano i cristiani a mangiare con loro.

C'è un buon rapporto. Nelle riunioni ufficiali del governo, anche quando si apre la sessione parlamentare, c'è una preghiera cristiana e una musulmana. E anche nelle scuole, nelle riunioni dei genitori. C'è un'accettazione reciproca, altrimenti sarebbe un problema serio. La maggior parte dei matrimoni nella nostra diocesi sono misti, tra cattolici e musulmani. Si dice che l'amore risolve molti problemi e crea molta unità, ed è vero. Lo diceva San Paolo e lo vediamo ogni giorno in modo concreto. Le vocazioni vengono soprattutto dalle scuole, sì. O dai figli delle famiglie cristiane che fanno i chierichetti, come molti di noi hanno fatto.

Quali difficoltà pastorali incontra nella diocesi?

È un'opinione molto personale, ma credo che dobbiamo aiutare ad approfondire le radici della fede. C'è ancora una fede un po' superficiale, sono passati solo 70 anni, praticamente, dall'inizio dell'evangelizzazione. Siamo alla prima generazione di cristiani, non possiamo aspettarci che il Vangelo sia entrato profondamente nel cuore e nella mente dei cristiani. Abbiamo ottimi cristiani, ottimi testimoni, ma mancano ancora. In particolare, secondo me, c'è ancora bisogno di approfondire l'aspetto morale. Per esempio, a causa del contesto culturale, la poligamia è molto diffusa e non è facile passare a una famiglia monogama.

Un'altra sfida pastorale per il vescovo, a mio avviso, è aiutare le coppie a celebrare il matrimonio cristiano. Si sposano quando hanno già dei figli e vedono che tutto funziona. In Europa, invece, non si sposano affatto, molti non si sposano nemmeno civilmente. In Sierra Leone lo prendono sul serio, più di noi, sanno che dopo non possono risposarsi e questo li spaventa, perché se c'è un divorzio e trovano un altro partner... E lo trovano, lui subito, lei un po' meno velocemente, ma per loro vivere senza un partner è impossibile, non c'è il concetto di single come c'è tra noi, che è in aumento in Europa. Questa è un'altra sfida molto forte.

Ci sono questioni culturali, ad esempio il caso di un giovane seminarista i cui genitori erano entrambi musulmani e il padre aveva tre mogli. I figli di una delle mogli erano tutti cattolici, perché la nonna era cattolica e amava molto la Chiesa, infatti aveva donato il terreno per costruire la cappella del villaggio.

Il figlio maggiore ha deciso di diventare seminarista saveriano e attualmente lavora in Messico. Andò a dire alla madre che voleva diventare sacerdote, il padre era già morto. E la madre disse: "Sì, certo, ma prima devi avere un figlio. Me lo dai e poi te ne vai". Perché nella loro cultura, per il figlio maggiore non avere figli è un disonore. È una cosa che non capiscono. Il figlio maggiore deve contribuire con i figli alla famiglia, in modo che la famiglia continui e non finisca. Il figlio non l'ha fatto, ovviamente.

Tuttavia, la sfida che mi sembra principale è che la fede aiuta ad abbattere le barriere tribali. Questo è un problema molto, molto grande in Sierra Leone. Non solo per il caso del vescovo di Makeni, che non è stato accettato perché apparteneva a un altro gruppo etnico. Ma anche in politica è lo stesso, ora c'è una grave tensione politica in Sierra Leone.

Questa divisione tribale, secondo me, è ciò che indebolisce il Paese. La Sierra Leone è un Paese ricco con un popolo in miseria. Per me questo è l'impegno più forte dei vescovi: lavorare per abbattere le barriere tribali.

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Vangelo

La vera vite. Quinta domenica di Pasqua (B)

Joseph Evans commenta le letture della domenica V di Pasqua e Luis Herrera tiene una breve omelia video.

Giuseppe Evans-25 aprile 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

"Io sono la vera vite"Gesù dice nel Vangelo di oggi. Ma questo implica che ci possono essere false viti, che offrono frutti che sembrano succulenti ma che finiscono per essere marci e persino velenosi. Adamo ed Eva potrebbero dirci qualcosa sul mangiare il frutto sbagliato. Ogni volta che cerchiamo qualcosa che non viene da Dio o che va contro le sue leggi, si tratta di una falsa vite. Può trattarsi di un obiettivo terreno che ci allontana da Dio e dalla nostra famiglia, o di una relazione che non segue gli insegnamenti morali cattolici. Pensavamo di aver trovato una vite ricca, ma si è rivelata un frutto amaro.

Tutte le viti della nostra vita devono provenire in ultima analisi da Dio: Egli deve essere il piantatore e il coltivatore. Dobbiamo sottoporre a Lui i nostri progetti e cercare di eseguirli secondo la sua volontà. Se lo facciamo, Lui li farà fruttificare. Se non lo facciamo, appassiranno e moriranno. Ma questo richiede anche l'azione di potatura di Dio. Nulla cresce pienamente se non viene tolto qualcosa. Un grande scultore deve tagliare via, all'inizio, grandi blocchi con colpi pesanti e poi con un'attenta scheggiatura. In una vite o in un albero da frutto, i frutti e i rami morti devono essere tagliati. Non dobbiamo mai pensare di non avere nulla da tagliare. Ci sono molte cose in noi che devono essere tagliate: difetti, beni superflui o certamente il nostro ego deve essere costantemente abbassato. Ma ogni taglio, per quanto doloroso possa sembrare, serve solo alla nostra crescita. 

"Ogni tralcio in me che non porta frutto viene strappato da me". Non dobbiamo lamentarci se Dio ci toglie delle cose. È solo perché possiamo crescere di più e meglio. Può toglierci qualcosa perché ci faceva male o ostacolava la nostra crescita spirituale. "E ogni portatore di frutti lo pota, affinché porti più frutti.". Dio ci toglie per farci fiorire. Tendiamo ad accontentarci troppo facilmente. Produciamo qualche arancia e pensiamo di aver fatto bene, ma Dio vuole che produciamo un raccolto abbondante. Pensiamo che sia sufficiente fare un po' di bene per i nostri familiari, mentre il Signore vuole che serviamo l'intera comunità.

Cosa significa portare frutto? È una vita di virtù, aprendoci sempre più alla "luce del sole", alla grazia dello Spirito Santo. È fare del bene agli altri, avere i figli che Dio vuole che abbiamo, promuovere i valori cristiani nel nostro ambiente... Ma questo richiede perseveranza, per mantenere ciò che abbiamo iniziato, come il tralcio mantiene la vite. Ecco perché Nostro Signore dice: "Come il tralcio non può portare frutto da sé se non rimane nella vite, così nemmeno voi potete farlo se non rimanete in me".

Omelia sulle letture della domenica di Pasqua V (B)

Il sacerdote Luis Herrera Campo offre il suo nanomiliaUna breve riflessione di un minuto per queste letture domenicali.

Vaticano

Il Papa esorta a chiedere le virtù teologali, antidoto all'egoismo

Il Santo Padre ha incoraggiato l'uditorio mercoledì a chiedere allo Spirito Santo le tre virtù teologali - fede, speranza e carità - per darci la grazia di credere, sperare e amare secondo il cuore di Cristo. Il Papa ha definito l'orgoglio "un potente veleno" e ha pregato per la pace in Ucraina e in Medio Oriente, affinché Israele e Palestina "siano due Stati liberi con buone relazioni".  

Francisco Otamendi-24 aprile 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

Dopo la sua riflessione di mercoledì scorso sulle quattro virtù cardinali -prudenza, giustizia, fortezza e temperanza-, il Papa ha affrontato nella sua catechesi in Piazza San Pietro le tre virtù teologali, fede, speranza e carità, sotto il tema "La vita di grazia secondo lo Spirito". La lettura era tratta dalla Lettera di San Paolo ai Colossesi.

Il Pontefice ha affermato che, oltre alle quattro virtù cardinali, il tre virtù teologiche costituiscono "un settenario" che si oppone ai sette peccati capitali e che, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, "fondano, animano e caratterizzano l'azione morale del cristiano. Informano e vivificano tutte le virtù morali. Sono infuse da Dio nell'anima dei fedeli per renderli capaci di agire come suoi figli e di meritare la vita eterna. Sono la garanzia della presenza e dell'azione dello Spirito Santo nelle facoltà umane" (n. 1813).

Le virtù teologali sono "un antidoto all'autosufficienza" e al rischio di diventare "presuntuosi e arroganti". L'orgoglio è "un potente veleno". Basta una goccia per rovinare "una vita segnata dal bene", ha sottolineato il Papa, ricordando che le virtù teologali aiutano a combattere l'"ego", il "povero 'io' che si appropria di tutto, e allora nasce l'orgoglio".

"Antidoto all'autosufficienza".

Francesco ha commentato in questo modo: "Le virtù cardinali corrono il rischio di generare uomini e donne eroici che fanno il bene, ma che agiscono da soli, isolati; invece, il grande dono delle virtù teologali è l'esistenza vissuta nello Spirito Santo. Il cristiano non è mai solo. Fa il bene non per uno sforzo titanico di impegno personale, ma perché, come umile discepolo, cammina dietro al Maestro Gesù. Le virtù teologali sono il grande antidoto all'autosufficienza: quante volte certi uomini e donne moralmente irreprensibili rischiano di diventare presuntuosi e arroganti agli occhi di chi li conosce".

"È un pericolo di cui siamo ben avvertiti nel Vangelo, dove Gesù raccomanda ai discepoli: "Anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato comandato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare" (Lc 17,10). L'orgoglio è un veleno potente: basta una goccia per rovinare un'intera vita segnata dal bene".

Il Papa ha anche sottolineato che "le virtù teologali sono di grande aiuto. Lo sono soprattutto nei momenti di caduta, perché anche chi ha buone intenzioni morali a volte cade. Così come anche chi pratica quotidianamente la virtù a volte sbaglia: l'intelligenza non è sempre lucida, la volontà non è sempre ferma, le passioni non sono sempre governate, il coraggio non sempre vince la paura". 

"Ma se apriamo il nostro cuore allo Spirito Santo, Egli ravviva in noi le virtù teologali: allora, se abbiamo perso la fiducia, Dio ci riapre alla fede; se siamo scoraggiati, Dio risveglia in noi la speranza; se il nostro cuore è indurito, Dio lo riscalda e lo accende del suo amore".

San Marco, San Giovanni Paolo II

Francesco ha ricordato che "domani celebreremo la festa liturgica di San Marco, l'evangelista che ha descritto con vivacità e concretezza il mistero della persona di Gesù di Nazareth. Vi invito tutti a lasciarvi affascinare da Cristo, a collaborare con entusiasmo e fedeltà alla costruzione del Regno di Dio".

Il Papa ha anche fatto riferimento al fatto che sabato prossimo la Chiesa celebrerà il decimo anniversario della canonizzazione di San Giovanni Paolo II. "Guardando alla sua vita, possiamo vedere ciò che l'uomo può ottenere accogliendo e sviluppando in sé i doni di Dio: fede, speranza e carità. Rimanete fedeli al vostro eredità. Promuovete la vita e non lasciatevi ingannare dalla cultura della morte. Per sua intercessione, chiediamo a Dio il dono della pace per la quale egli, come Papa, si è tanto impegnato. Vi benedico di cuore.

L'autoreFrancisco Otamendi

Stati Uniti

Jaime Reyna: "Il Congresso eucaristico è il miglior investimento spirituale che possiamo fare".

Intervista a Jaime Reyna, responsabile per il multiculturalismo e l'inclusività del Congresso Eucaristico Nazionale.

Paloma López Campos-24 aprile 2024-Tempo di lettura: 4 minuti
Jaime Reyna, responsabile della multiculturalità e dell'inclusività del Congresso Eucaristico Nazionale

Si avvicina la data di inizio del Congresso Eucaristico Nazionale. Il 17 luglio 2024 inizieranno alcuni giorni di incontro tra i cattolici degli Stati Uniti e Cristo. L'atmosfera degli ultimi preparativi è in pieno svolgimento, ma i membri delle équipe organizzatrici hanno ancora tempo per parlare di questo grande evento storico.

Una delle persone che desidera condividere ciò che sta accadendo per incoraggiare le persone a partecipare al Congresso eucaristico nazionale è Jaime Reyna. Jaime è responsabile del multiculturalismo e dell'inclusività, ma ha una lunga storia di coinvolgimento nelle attività della Chiesa. È stato direttore degli uffici della Vita familiare, della Pastorale giovanile, della Pastorale sociale e della Pastorale multiculturale nella diocesi di Corpus Christi (Texas).

In questa intervista, Jaime Reyna parla dell'organizzazione del Congresso e dei frutti che si aspetta di vedere da questo incontro nazionale di cattolici.

Qual è stata la cosa più emozionante nel partecipare alla preparazione del Congresso Eucaristico Nazionale?

- Ho lavorato per la diocesi di Corpus Christi per sedici anni e sono stata direttrice di molti uffici e progetti speciali del vescovo. A quel tempo il mio cuore desiderava un cambiamento, ma non sapevo quale. In quel periodo ricevetti un invito a candidarmi per l'organizzazione del Congresso eucaristico nazionale. Quello che mi veniva chiesto sembrava impossibile, ma mi piaceva perché è in questo tipo di lavoro che si vede la mano di Dio.

Ho accettato l'incarico senza esitare, perché questo nuovo lavoro aveva a che fare con l'Eucaristia, che amo, e il motivo di questo Congresso mi ha commosso, volevo davvero mettere tutto me stesso in questo incontro nazionale. Sono molto entusiasta del fatto che io, umile servitore, abbia un piccolo ruolo da svolgere nel portare i miei doni e i miei talenti a questo incontro.

Perché è stato importante occuparsi delle risorse in lingua spagnola per il Congresso?

- Soprattutto dopo essere stato direttore del ministero ispanico per diversi anni, mi sono reso conto che la comunità ispanica in particolare è affamata, ma anche limitata a volte, perché non ci sono abbastanza risorse in spagnolo per aiutarli a vivere la loro fede. Quando sono entrato a far parte del team, sapevo che dovevamo fare uno sforzo per fornire il maggior numero possibile di risorse in spagnolo. Non abbiamo fatto il lavoro migliore, ma stiamo facendo meglio di prima. Siamo in una fase migliore, ma devo dire che abbiamo avuto un inizio difficile e non è stato facile.

Riusciranno gli ispanici a trovare nel Congresso elementi provenienti dai paesi ispanoamericani che li aiutino a riavvicinarsi alle loro radici?

- La sfida è rappresentata dallo spazio e dal tempo, ma avremo due palchi dove le persone potranno suonare e ascoltare la musica tradizionale. Stiamo lavorando per rendere questo evento il più eterogeneo possibile dal punto di vista culturale.

Crediamo che le persone vedranno anche una certa atmosfera di diversità culturale nella liturgia. Per esempio, avremo una messa in vietnamita e una in spagnolo, e stiamo facendo ogni sforzo per assicurare che i partecipanti alla processione eucaristica indossino i loro abiti tradizionali.

Su cosa state lavorando al Congresso per garantire che il multiculturalismo e l'inclusività siano ben integrati nell'organizzazione?

- Ho fatto diverse visite nell'area di Indianapolis per invitare le parrocchie che avevano una comunità multiculturale a partecipare non solo come assistenti, ma anche, se qualcuno di loro aveva doni e talenti da mettere a frutto, a collaborare con noi. Vogliamo creare un ambiente di diversità culturale, perché questo è il volto della nostra Chiesa oggi.

Stiamo anche facendo uno sforzo per far sentire la comunità delle persone con disabilità benvenuta e invitata. I nostri fratelli e sorelle sordi o ciechi... Vogliamo che tutti si sentano benvenuti.

Lei definisce il Congresso Eucaristico Nazionale come un "incontro vivo con Cristo", cosa significa in concreto?

- Non sono molte le persone che hanno l'opportunità di partecipare a un raduno nazionale per riunirsi come un unico corpo, il Corpo di Cristo. Quando si tratta di vita parrocchiale o diocesana, le persone vedono fondamentalmente il mondo dal proprio ambito, e sperimentare la propria fede insieme ad altri cattolici provenienti da contesti culturali diversi li porterà a vivere in modo diverso il loro incontro con Cristo. La nostra diversità ci unisce in un'unica fede, e poterla condividere è bellissimo.

Cosa vorreste che i partecipanti portassero a casa da questa esperienza?

- Questo è uno degli aspetti su cui il team sta lavorando. Non vogliamo che le persone pensino di andare al Congresso e che questo sia la fine. In realtà, il Congresso è un inizio, vogliamo che tutti sappiano che riunendosi, rinnovandosi, possiamo tornare nelle nostre comunità e condividere il fuoco del Rinascimento eucaristico. Siamo chiamati come missionari eucaristici e discepoli a prendere ciò che impariamo e sperimentiamo e a condividerlo con gli altri.

Cosa vorrebbe dire alle persone per incoraggiarle a partecipare al Congresso Eucaristico Nazionale?

- Vi incoraggio a vederla in questo modo: questo è un momento storico. Sono 83 anni che non abbiamo un Congresso eucaristico nazionale. D'altra parte, quando parliamo del pellegrinaggio eucaristico nazionaleDevono sapere che è la prima volta nella nostra storia che si verifica una cosa del genere. Anche questa è un'opportunità.

Ma se qualcuno ha mai avuto un momento di dubbio sulla partecipazione al Congresso, voglio dirgli che i nostri vescovi, guidati dallo Spirito Santo, hanno votato per realizzarlo prima ancora di conoscere il bilancio. Sapevano che era necessario, che la nostra Chiesa ne aveva bisogno. E noi, come laici, dobbiamo rispondere a questa chiamata. Se molti di noi si riuniscono uniti nella stessa causa e nella stessa fede, daremo testimonianza al mondo del nostro amore per Cristo.

Credo sinceramente che questo Congresso sia il miglior investimento spirituale che possiamo fare.

Lei fa parte di un gruppo di adorazione notturna da molto tempo, perché pensa che sia importante passare del tempo in preghiera davanti al Santissimo Sacramento?

- Quando sono con Gesù, tutto diventa chiaro. Anche nei momenti di difficoltà, vado semplicemente al Santissimo Sacramento e so che, che io abbia o meno una risposta, Lui mi accompagna.

Partecipare all'Adorazione notturna mi riporta al tempo in cui i discepoli pregavano con Gesù, ed è un onore dedicare anche solo un'ora del turno di notte a pregare per tutte le persone del mondo, per la nostra Chiesa, per le vocazioni, per i moribondi....

Più tempo passo in Nocturnal Adoration e più mi piace. Mi sembra una parte di me.

Spagna

I vescovi spagnoli dicono "no" al piano del governo per i risarcimenti alle vittime di abusi

I vescovi spagnoli hanno fortemente criticato il piano approvato dal governo per riparare i danni causati alle vittime di abusi sessuali. Lo considerano discriminatorio, perché lascia fuori 9 vittime su 10, e viene respinto perché si concentra solo sulla Chiesa cattolica, mentre il problema è "sociale di enormi dimensioni", affermano.  

Francisco Otamendi-23 aprile 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

Il governo spagnolo ha approvato martedì un piano che prevede un risarcimento per le vittime di abusi nella Chiesa i cui casi sono caduti in prescrizione, nonché la celebrazione di un atto di riconoscimento statale per le persone colpite. Tuttavia, i vescovi hanno espresso dure critiche al piano governativo.

In una conferenza stampa successiva al Consiglio, il Ministro della Presidenza, della Giustizia e dei Rapporti con i Tribunali, Félix Bolaños, ha dichiarato che questo piano cerca di risarcire le vittime che "per decenni sono state dimenticate e trascurate" e alle quali "nessuno ha prestato attenzione". A tal fine, il governo prevede un risarcimento finanziario, riferisce l'agenzia statale, e l'intenzione è che la Chiesa contribuisca a pagarlo.

Tuttavia, nel giro di un paio d'ore, la Conferenza Episcopale Spagnola (CEE), presieduta da monsignor Luis Argüello, ha reso pubblica una nota in cui non accetta il piano del governo, in particolare per tre motivi principali:

Giudizio di condanna su tutta la Chiesa

1) "Non si possono proporre misure di riparazione che, secondo il rapporto dell'Ombudsman, lascerebbero fuori 9 vittime su 10. La Chiesa non può accettare un piano che discrimina la maggioranza delle vittime di abusi sessuali". La Chiesa non può accettare un piano che discrimina la maggioranza delle vittime di abusi sessuali".

2) "Il testo presentato si basa su un giudizio di condanna dell'intera Chiesa, effettuato senza alcuna garanzia giuridica, un'individuazione pubblica e discriminatoria da parte dello Stato. Concentrandosi solo sulla Chiesa cattolica, affronta solo una parte del problema. È un'analisi parziale e nasconde un problema sociale di enormi dimensioni".

E 3) "Inoltre, questo regolamento mette in discussione il principio di uguaglianza e universalità che deve avere qualsiasi processo che riguardi i diritti fondamentali. La Chiesa è avanti nell'accoglienza delle vittime, nella formazione alla prevenzione e nella riparazione. Spetta alle autorità pubbliche sviluppare misure adeguate in questo compito di protezione dei minori in tanti ambiti di loro competenza".

"La Conferenza episcopale ha informato il ministro Bolaños della sua valutazione critica di questo piano che si concentra solo sulla Chiesa cattolica. Ha inoltre espresso la propria disponibilità a collaborare negli ambiti di propria responsabilità e competenza, ma sempre nella misura in cui si affronti il problema nel suo complesso", prosegue la nota. "In ogni caso, la Chiesa rimane impegnata a continuare ad accogliere tutte le vittime di abusi sessuali, ad accompagnarle e a riparare.

Coincidenze

I vescovi aggiungono che "l'azione che la Chiesa sta sviluppando di fronte agli abusi sessuali coincide, in larga misura, con le cinque linee d'azione proposte in questo piano. La Chiesa sta già lavorando lungo le linee di accoglienza, cura e riparazione delle vittime, prevenzione degli abusi, formazione e sensibilizzazione della società".

"In relazione al piano presentato, la CEE ritiene che, certamente, quelle misure che si riferiscono a tutte le vittime sono preziose e la Chiesa lavora e lavorerà anche sotto questo aspetto, con l'esperienza che essa stessa può portare per accogliere tutti coloro che hanno sofferto e soffrono per questo flagello".

Da parte sua, il piano del governo prevede la creazione di una commissione composta dai ministeri coinvolti nell'attuazione delle misure e cercherà la partecipazione delle vittime e delle loro associazioni.

Studio dei vescovi

Il segretario generale e portavoce della Conferenza episcopale spagnola, mons. Francisco César García Magán, ha riferito alla fine dello scorso anno che l'attenzione alle vittime di abusi e la prevenzione e la riparazione integrale, da tutti i punti di vista, psicologico, sociale ed economico, sono stati un tema centrale della Conferenza episcopale spagnola. Assemblea plenaria dei vescovi spagnoli che si è svolta dal 20 al 24 novembre dello scorso anno.

Al termine dei lavori, il portavoce García Magán ha sottolineato che il lavoro comprendeva diverse linee d'azione proposte dal Servizio diocesano di coordinamento e consulenza degli uffici diocesani per la tutela dei minori: l'attenzione alle vittime, la prevenzione globale e la riparazione, da tutti i punti di vista, psicologico, sociale ed economico.

Pochi giorni fa, il 18 aprile, il Presidente e il Segretario generale dell'Episcopato spagnolo hanno incontrato il Ministro della Presidenza al Palazzo della Moncloa e il tono dell'incontro è stato il seguente riunione è stato riferito come rilassato e cordiale.

L'autoreFrancisco Otamendi

Mondo

La Cambogia si prepara al Giubileo 2025

I cattolici cambogiani del Vicariato Apostolico di Phnom Penh si preparano al Giubileo del 2025. Omnes ha parlato con padre Gianluca Tavola, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME) in Cambogia dal 2007.

Federico Piana-23 aprile 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

Preghiera e silenzio, per un anno. È così che i cattolici cambogiani del Vicariato Apostolico di Phnom Penh si stanno preparando a vivere il Giubileo 2025. Nel Paese del Sud-Est asiatico, dove i cristiani sono una netta minoranza, circa lo 0,2% della popolazione totale, prevalentemente buddista, il vescovo del Vicariato, mons. Olivier Michel Marie Schmitthaeusler, ha voluto che la preparazione al prossimo Anno Santo diventasse uno strumento di rafforzamento della fede e un utile esempio di evangelizzazione. "In fondo la preghiera è il fondamento della nostra vocazione, del nostro cammino, della nostra conversione", spiega a Omnes padre Gianluca Tavola, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME) in Cambogia dal 2007.

Il legame con Madre Teresa

Il religioso di origine italiana, rettore del seminario maggiore di Phnom Penh e responsabile del settore pastorale di tre piccole comunità cristiane nella città di TaKhmao, situata a sud della capitale, sottolinea che il vescovo del Vicariato ha voluto collegare la celebrazione dell'Anno della preghiera a una frase che Madre Teresa di Calcutta amava dire: "È un'espressione molto bella che dice: il frutto del silenzio è la preghiera; il frutto della preghiera è la fede; il frutto della fede è l'amore; il frutto dell'amore è il servizio; il frutto del servizio è la pace".

Coinvolgere le parrocchie e le famiglie

E proprio seguendo queste indicazioni, in tutte le parrocchie e comunità si celebra ogni mese una preghiera per le vocazioni e si dedica del tempo all'ascolto della Parola di Dio, ad esempio attraverso la Lectio Divina. "Ma monsignor Schmitthaeusler - dice padre Tavola - ha anche chiesto alle famiglie di prevedere, almeno una volta alla settimana, di organizzare dei momenti di preghiera comune della durata di dieci o quindici minuti, accompagnati da alcuni momenti di riflessione e di ringraziamento".

Decisione provvidenziale

Per padre Gianluca Tavola, la convocazione dell'Anno di preghiera e silenzio in vista del Giubileo è una decisione provvidenziale. Perché, dice, "la Chiesa in Cambogia - che nell'ultimo decennio ha lavorato molto per l'evangelizzazione e l'approfondimento della fede - ha bisogno di arrivare a un tempo di grazia come l'Anno Santo con un respiro disteso, con un respiro più lungo. La preghiera, il silenzio e il riposo ci faranno certamente bene".

Chiesa giovane

In Cambogia ci sono meno di 30.000 cristiani su una popolazione totale di 16.000.000. La Chiesa ha un vicariato apostolico, quello di Phnom Penh, e due prefetture apostoliche, quelle di Battambang e Kompong-Cham. Dopo un periodo di dolore e oppressione a causa di guerre e regimi, "la Chiesa è rinata nel 1990", ricorda il missionario del Pime, secondo cui "oggi ci sono più di cento sacerdoti, di cui dodici cambogiani, mentre c'è una buona presenza di istituti religiosi e femminili, compresi i laici". Una minoranza che rappresenta un segno di amore per il prossimo, conclude padre Tavola: "Grazie a Dio, in Cambogia c'è libertà di culto, abbiamo la nostra dignità. E nella società siamo presenti nell'educazione e nella sanità. Siamo piccoli, ma amiamo con un cuore grande".

L'autoreFederico Piana

 Giornalista. Lavora per la Radio Vaticana e collabora con L'Osservatore Romano.

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Evangelizzazione

Cecilia Mora. Condividere l'amore di Dio

Attraverso i suoi social network, in particolare il suo profilo Instagram, Cecilia Mora vuole trasmettere l'amore di Dio e la gioia della vita cristiana.

Juan Carlos Vasconez-23 aprile 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

Si chiama Cecilia Mora, ma per gli amici è Ceci. La vita e l'esperienza di questa donna messicana di 26 anni sono segnate da una costante ricerca di Dio e da un profondo desiderio di condividere l'amore di Cristo con coloro che la circondano. Si definisce "Cattolica, figlia, futura moglie, amica e compagna". Come ogni giovane, ama "cantare e ballare, passare del tempo con gli amici e la famiglia". 

Fin da piccola, Ceci ha avuto Dio molto presente nella sua vita. Cecilia è stata introdotta alla via della fede dai suoi genitori, che le hanno trasmesso il loro amore per Dio e le hanno insegnato a vivere secondo i principi cristiani. 

La sua infanzia e la sua adolescenza sono state permeate dalla presenza di Dio, sia a casa che a scuola. Questa solida base ha gettato le fondamenta della sua relazione personale con il divino.

Un passo verso la maturità

Tuttavia, quando Ceci ha vissuto un incontro trasformativo con la fede è stato durante una fase cruciale della sua vita: all'età di 18 anni.

In quel periodo andò a vivere a Parigi e, essendo lontana da casa, si rese conto che vivere senza regole "È molto bello, ma implicava una maggiore responsabilità per le loro azioni. 

Racconta che un giorno, mentre camminava vicino a dove abitava, si imbatté in una chiesa. Entrò e si sedette in un banco, osservando ciò che stava accadendo. Si scoprì che stava iniziando una messa per offrire l'inizio dell'anno scolastico. Questo la trasportò direttamente a scuola, quando pensò che altre persone stavano decidendo per lei, e in quel momento lei stessa decise di essere più vicina a Dio. 

Così ha fatto volontariato in una scuola femminile. Secondo la sua definizione, si trattava di una "Sono qui, non ti lascerò solo". da Dio. Anche se sembra speciale, "Questo è stato decisivo per la mia fede, perché ho confermato che volevo essere cattolica, la mia fede è passata da una tradizione familiare a una convinzione personale.sottolinea, convinta.

Condividere la fede in rete

Il desiderio di condividere la sua esperienza di fede e di essere strumento dell'amore divino l'ha condotta su un cammino di servizio e di evangelizzazione. 

Attraverso il suo account personale di Instagram, @cecimoracerca di diffondere il messaggio di Cristo e di condividere la Sua luce con coloro che la seguono sui social media. Per Ceci, le piattaforme digitali rappresentano uno spazio privilegiato per portare il Vangelo a un nuovo pubblico e connettersi con chi cerca risposte spirituali nel mondo moderno.

Oltre al suo lavoro online, Ceci trova "ispirazione e forza spirituale nella preghiera, nella partecipazione all'Eucaristia e nella lettura delle vite dei santi". Questi momenti di incontro con il sacro gli permettono di rinnovare la sua fede e di continuare il suo cammino di crescita spirituale.

Cecilia desidera che la sua vita sia una testimonianza dell'amore redentore di Cristo. Desidera essere ricordata "come una persona che ha vissuto con passione e dedizione, cercando sempre la volontà di Dio e condividendo generosamente il suo amore". Il suo più grande desiderio è che il suo esempio ispiri altri a cercare Dio e a trovare in Lui la vera realizzazione e la gioia.

Ceci incarna la costante ricerca della presenza divina nella vita quotidiana e la missione di portare il messaggio di Cristo in ogni angolo del mondo. In un certo senso ci ricorda che la fede è un cammino personale e condiviso, un percorso di incontro con Dio e con gli altri che ci invita a vivere con autenticità e generosità.

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Vaticano

Victoria, la giovane donna che invita il Papa a bere un mate: "È una cosa semplice che posso fare per farlo sentire a casa".

Victoria Caranti è una giovane donna argentina che ha stabilito una sorta di "tradizione" con il Papa: portargli il tè al mate durante le udienze a cui partecipa.

Maria José Atienza-22 aprile 2024-Tempo di lettura: 4 minuti

Victoria Caranti ha 26 anni e ha origini argentine, anche se è cresciuta negli Stati Uniti. Durante la Settimana Santa 2018, è riuscita a far arrivare a Papa Francesco una compagno Argentino. Questo gesto casuale non fu l'unico. Anni dopo, nel 2021, si trasferì a Roma per studiare teologia al Pontificia Università della Santa Croce. Nel corso degli anni, ha invitato nuovamente il Papa ad accoppiarsi nelle varie occasioni in cui è stato con il Santo Padre.

Pochi mesi dopo il ritorno negli Stati Uniti, Victoria conserva nella memoria alcuni incontri con Papa Francesco, caratterizzati dalla tipica bevanda argentina. Victoria porta questa bevanda al Papa perché sa che gli piace: "È qualcosa di semplice che posso fare per lui, affinché possa riposare, divertirsi, sentirsi a casa e nella sua terra. Il mate è da condividere con gli altri, e per me questo include il Santo Padre. È un dono poterlo fare e spero che tutti possano fare qualcosa per lui, anche se è qualcosa di semplice come pregare un po' di più".

Come le è venuta l'idea di portare il mate al Papa? 

-Qualche anno fa, nel 2018, quando sono venuto alla UNIV Durante la Settimana Santa a Roma, sono riuscito a portare il mio compagno a Papa Francesco durante l'udienza generale. È stato un grande momento e l'ho sempre ricordato come LA volta che ho dato il mate al Papa.

Quando sono venuta a vivere a Roma nel 2021, c'erano ancora molti regolamenti COVID. Quindi non ho pensato di dargli il mate fino a novembre 2022.

Ero a Santa María la Mayor con la mia amica Cami, in attesa di vedere il Papa, che veniva a ringraziare la Vergine per il suo viaggio in Bahrein. Fu Cami a dirmi: "E se ora gli dessi del mate? Mi sembrava un po' fuori luogo bere mate in una basilica, ma ho deciso di fare il grande passo quando stavo per uscire. Non c'è una grande barriera. Ho potuto inginocchiarmi davanti alla sua sedia a rotelle e offrirle il mate, che ha ricevuto con piacere e con la frase combattiva "Non mi avvelenerai, vero?

Da allora ho sempre con me il compagno quando lo vedo da vicino.

Victoria, la giovane donna che invita il Papa per il mate
Vittoria offre il mate al Papa a Santa Maria Maggiore

Cosa le ha detto il Papa le volte che lo ha portato in visita? 

-Mi ha detto diverse cose che dimostrano la sua vicinanza, il suo affetto, il suo senso dell'umorismo....

La seconda volta che l'ho incontrato a Santa María la Mayor mi ha detto: "Ma tu, che ci fai qui? Questo mi sconvolse, perché significava che mi aveva riconosciuto come la ragazza che tre mesi prima gli aveva dato del mate.

Un'altra volta mi ha chiesto da dove venissi e quando ho detto "Buenos Aires" il suo volto si è illuminato.

Diverse volte mi ha detto che il compagno è un po' troppo freddo, troppo caldo, troppo ricco... o "Cebás molto bene" (Orzo significa che preparo e servo il mate). È difficile avere l'acqua per il mate a una buona temperatura e farla passare attraverso i controlli di sicurezza perché non fanno passare le bottiglie di metallo...

Una volta, quando andai con i miei genitori e mio fratello all'udienza, gli demmo anche del mate. Mia madre gli disse che pregava molto per lui, e lui la corresse: "Dica la stessa cosa ma senza il "molto"; perché chi dice molto non viene creduto". Me lo ripeté anche in un'altra occasione, quando gli diedi il mate in aula Paolo VI e sbagliai a dire "molto".

L'ultima volta che siamo andati, una donna che era con me gli ha chiesto di dire un'Ave Maria per suo fratello. Il Papa le ha chiesto il nome e lei ha detto che l'avrebbe fatto. Due volte sono andata con amici per il suo compleanno e lui si è congratulato con loro e ha persino regalato loro un rosario! 

Cosa significa per gli argentini il loro Papa "concittadino"?

Victoria, la giovane donna che invita il Papa per il mate
Il Papa con il mate offerto da Vittoria durante un'udienza generale

-Non so se posso parlare a nome di tutti gli argentini, ma per me il fatto che il Papa sia argentino è molto speciale. Naturalmente amo, sostengo e lodo il Papa, chiunque sia, perché è il Vicario di Cristo. Ma è davvero unico avere un Papa che viene dalla tua patria, che ti parla con il tuo accento e conosce la tua cultura e i tuoi costumi.

Papa Francesco è molto accessibile e, per me, il fatto che sia argentino lo rende ancora di più. Poterlo conoscere in questo modo mi rende più facile pregare per lui e vedere la persona che è a capo della Chiesa.

Nessun altro Papa avrebbe fermato la papamobile per un compagno! Quindi mi rendo conto che questo è un evento davvero unico nella mia vita. Lo ricorderò per sempre, per non dimenticare che tutti i Papi che seguiranno riceveranno lo stesso affetto, anche se non sono del mio Paese, perché la Chiesa è universale. 

Cosa la colpisce di più della personalità di Papa Francesco? 

-La sua vicinanza e la sua generosità. Si dona tutto il giorno. Ha molto lavoro e il peso di tutta la Chiesa sulle spalle. È un uomo anziano, ma questo non lo ferma.

Sta sempre con le persone e sta con te come se fossi l'unico in quel momento quando, in realtà, non sei nessuno!

È semplice e affettuoso. Scherza come farebbe tuo nonno, ma ti parla anche seriamente e ti fa delle richieste. È un santo. Nessuno alla sua età fa la metà di quello che fa lui e con il sorriso.

Continuerete a portarlo con voi? 

-Sì, sfrutterò le opportunità che ho! Non posso andare spesso alle udienze perché ho delle lezioni e sto per tornare negli Stati Uniti, ma ci proverò ancora una volta.

A parte queste occasioni, ha avuto modo di incontrarlo in altre occasioni? 

-Non ne ho ancora avuto l'occasione, ma vediamo se ci riesco! 

Vaticano

Persone con disabilità: verso una cultura “dell’inclusione integrale”

Un forte appello per promuovere una "cultura dell'inclusione integrale" delle persone con disabilità, superando la mentalità utilitaristica e discriminatoria della "cultura dello scarto", lo ha lanciato Papa Francesco l’11 aprile scorso, ricevendo in Udienza nella Sala Clementina i partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

Giovanni Tridente-22 aprile 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

L'11 aprile, Papa Francesco ha lanciato un forte appello promuovere una "cultura dell'inclusione integrale" delle persone con disabilità, superando la mentalità utilitaristica e discriminatoria della "cultura dello scarto", ricevendo in udienza nella Sala Clementina i partecipanti alla sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

"Quando questo principio elementare non è salvaguardato, non c'è futuro né per la fraternità né per la sopravvivenza dell'umanità", ha ammonito il Pontefice riferendosi al principio della dignità inviolabile di ogni essere umano, indipendentemente dalle sue condizioni.

Pur riconoscendo i progressi fatti in molti Paesi, Francesco ha denunciato che in troppe parti del mondo le persone con disabilità e le loro famiglie sono ancora "isolate e spinte ai margini della vita sociale". Una situazione che si verifica non solo nei Paesi più poveri, dove la disabilità "condanna spesso alla miseria", ma anche in contesti di maggior benessere economico.

Mentalità trasversale

La "cultura dello scarto", per il Papa, è trasversale e non ha confini. Essa porta a valutare la vita solo in base a "criteri utilitaristici e funzionali", dimenticando la dignità intrinseca di ogni persona con disabilità, "soggetti pienamente umani, titolari di diritti e doveri".

Un aspetto particolarmente insidioso di questa mentalità è la tendenza a far sentire le persone con disabilità "un peso per sé e per i propri cari". "Il diffondersi di questa mentalità trasforma la cultura dello scarto in cultura di morte", ha aggiunto Francesco, ricordando che "le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare".

Per contrastare questo fenomeno, il Pontefice ha esortato a "promuovere la cultura dell'inclusione, creando e rafforzando i legami di appartenenza alla società". È necessario un impegno corale di governi, società civile e delle stesse persone con disabilità come "protagoniste del cambiamento".

Sussidiarietà e partecipazione

"Sussidiarietà e partecipazione sono i due pilastri di un'inclusione efficace", ha proseguito, sottolineando l'importanza dei movimenti che promuovono la partecipazione sociale attiva. Un percorso che richiede "fermezza e capacità di trovare strade efficaci" per realizzare una sorta di nuovo umanesimo, secondo quanto già ribadito in "...un nuovo umanesimo".Fratelli Tutti"Ogni impegno in questa direzione diventa un alto esercizio di carità".

Dignità per tutti

All’inizio del mese è apparso un altro documento che fa riferimento a queste tematiche, la Dichiarazione Dignitas infinita del Dicastero per la Dottrina della Fede, dove si sottolinea che ogni essere umano ha la stessa ed intrinseca dignità, indipendentemente dal fatto che sia in grado o meno di esprimerla adeguatamente.

Il tema della disabilità è affrontato in modo specifico nei numeri 53 e 54, nei quali si evidenzia “la cultura dello scarto” nei confronti delle persone diversamente abili, una sfida attuale che richiede maggiore attenzione e sollecitudine, soprattutto se si pensa che in alcune culture queste persone vivono situazioni di grande emarginazione. Invece, l’assistenza fornita ai più svantaggiati è proprio “un criterio per verificare una reale attenzione alla dignità di ogni individuo”.

Anche qui c’è un richiamo inevitabile alla Fratelli tutti: “Prendersi cura della fragilità dice forza e tenerezza, dice lotta e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista”. Significa in definitiva “farsi carico del presente nella sua situazione più marginale e angosciante ed essere capaci di ungerlo di dignità”.

L'autoreGiovanni Tridente

Libri

Chesterton e ciò che gli uomini odiano... a ragion veduta

Da Ediciones Encuentro arriva "Cosas que los hombres odian con razón" (2024), che raccoglie gli articoli che Chesterton pubblicò nel 1911 su "The Illustrated London News". Questo è il sesto volume della serie che Encuentro pubblica dello scrittore.

Loreto Rios-22 aprile 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

Dal 1905 fino alla sua morte nel 1936, il famoso scrittore inglese G. K. Chesterton (Londra, 1874-Beaconsfield, 1936) scrisse regolarmente sul settimanale londinese "The Illustrated London News", fondato nel 1842 da Herbert Ingram e Mark Lemon e scomparso nel 2003.

Ediciones Encuentro si è impegnata a pubblicare in spagnolo tutti gli articoli che Chesterton ha pubblicato su questa rivista. La collana comprende attualmente sei volumi, i primi cinque dei quali sono "La fine di un'epoca" (articoli del 1905-1906), "Vegetariani, imperialisti e altri parassiti" (1907), "La stampa si sbaglia e altri truismi" (1908), "La minaccia dei parrucchieri" (1909) y "Molti vizi e alcune virtù" (1910).

L'ultimo volume, pubblicato nel febbraio di quest'anno in collaborazione con il Club Chesterton dell'Università San Pablo CEU (Fondazione Culturale Ángel Herrera Oria), con il titolo ".Cose che gli uomini giustamente odiano"Il libro è stato pubblicato nella nostra lingua nello stesso anno del 150° anniversario della nascita dello scrittore, nato a Londra nel 1874, e contiene articoli pubblicati nel corso del 1911. Queste pubblicazioni sono quindi precedenti all'ingresso di Chesterton nella Chiesa cattolica, avvenuto nel 1911. nel 1922.

Cose che gli uomini giustamente odiano

AutoreG. K. Chesterton
EditorialeIncontro
Pagine: 230
Madrid: 2024

L'uomo che è stato definito "l'apostolo del buon senso" tratta un'ampia gamma di argomenti, dal Natale, alla letteratura e alla guerra, alla famiglia, al matrimonio, alla religione e alla stampa, tra molti altri, mostrando la sua particolare arguzia e ironia.

Con Chesterton, ogni occasione può essere il punto di partenza per una riflessione su qualsiasi argomento, che si tratti di una circolare di persone che "volevano far rivivere in Inghilterra la religione dei sassoni pagani", per parlare dei concetti di modernità o antichità; della moda femminile per commentare che la poligamia "significa davvero schiavitù"; o del cibo vegetariano per esemplificare come il linguaggio possa essere distorto per evitare di chiamare qualcosa con il suo nome.

Il lettore contemporaneo troverà che molte delle idee qui presentate possono essere rilevanti per la nostra società di oggi, nonostante la distanza di oltre un secolo che ci separa da questi articoli.

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Vaticano

Francesco al Regina Coeli: "Siamo sempre di grande valore per Cristo".

Il Buon Pastore, che conosce personalmente ciascuno di noi, è stato al centro delle parole del Papa in questo Regina Coeli.

Maria José Atienza-21 aprile 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

Una mattinata di sole, non priva di un certo refrigerio, ha accompagnato le parole di Papa Francesco prima di recitare il Regina Coeli dalla finestra degli appartamenti papali.

Rivolgendosi a un gruppo molto più numeroso di fedeli riuniti in Piazza San Pietro in Vaticano, il Papa ha sottolineato come Dio, il Buon Pastore, ami ogni creatura individualmente. "Il Buon Pastore] pensa a ciascuno di noi come all'amore della sua vita", ha ricordato il Papa ai fedeli.

Questa idea, ha sottolineato il pontefice, "non è un modo di dire". Cristo ci ama perché, come un pastore, vive con noi giorno e notte: "Essere un pastore, soprattutto al tempo di Cristo, non era solo un lavoro, ma una vita: non si trattava di avere un'occupazione particolare, ma di condividere intere giornate, e anche notti, con le pecore, di vivere in simbiosi con loro", ha spiegato il Papa.

Il pontefice ha sottolineato che, in mezzo alle crisi esistenziali di tante persone che "si considerano inadeguate o addirittura sbagliate, Gesù ci dice che siamo sempre di grande valore per Lui". E possiamo prendere coscienza di questo amore di Cristo solo cercando momenti "di preghiera, di adorazione, di lode, per stare alla presenza di Cristo e lasciarmi accarezzare da Lui".

Grido di pace

Il Papa ha ricordato la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni celebrata oggi dalla Chiesa cattolica. In questo contesto, ha invitato a "costruire la pace e a scoprire una polifonia di carismi nella Chiesa".

La pace è stata al centro dell'ultima parte delle parole del Papa prima dei saluti. Francesco non ha dimenticato le aree del mondo in cui la pace è ancora un sogno.

In questo modo, ha invitato a pregare per la situazione in Medio Oriente, che, come ha sottolineato, continua a preoccuparlo. Il Papa ha ribadito l'invito a "non cedere alla logica della vendetta della guerra" e ha chiesto che "prevalgano il dialogo e la diplomazia".

Non ha dimenticato la guerra in Israele e Palestina, né la necessità di continuare a pregare per i martiri dell'Ucraina e ha chiesto di pregare per l'anima di Matteo Pettinari, missionario della Consolata morto in un incidente stradale in Costa d'Avorio.  

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Vocazioni

Innocent Chaula: "Grazie al Signore, abbiamo molte vocazioni native in Tanzania".

Questa domenica, le Pontificie Opere Missionarie organizzano la Giornata delle vocazioni native per raccogliere fondi a sostegno delle vocazioni nate nei territori di missione. In questa intervista, padre Innocent Chaula ci parla del panorama vocazionale del suo Paese, la Tanzania.

Loreto Rios-21 aprile 2024-Tempo di lettura: 5 minuti

Domenica 21 aprile si celebra la Giornata delle vocazioni native, organizzata dalle Pontificie Opere Missionarie per raccogliere fondi a sostegno delle vocazioni emergenti nei territori di missione. Il sito web specifico per questa giornata è disponibile all'indirizzo qui.

Come esempio di vocazione autoctona, Omnes ha intervistato padre Innocent Chaula. Un nativo di TanzaniaHa sentito la chiamata alla vocazione quando era molto giovane. Attualmente studia all'Università Ecclesiastica di San Damaso a Madrid e, una volta terminata la formazione, tornerà nella sua diocesi di origine. In questa intervista parla della situazione delle vocazioni native nel suo Paese e dell'importanza delle Pontificie Opere Missionarie nell'aiutare queste vocazioni. Attualmente la PMS sostiene 725 seminari nel mondo e il sostegno finanziario per l'anno 2023 ammonta a 16.247.679,16 euro.

Com'è stato il suo processo vocazionale?

Sono nato a Njombe, in Tanzania, nel 1983 in una famiglia per metà cristiana e per metà pagana. Ho sentito la vocazione al sacerdozio quando ero molto giovane, a 5 anni, sembrava uno scherzo. Grazie all'opera dei Missionari della Consolata, in particolare di padre Camillo Calliari IMC, e alla fede di mia madre, la chiamata è progredita passo dopo passo fino al momento in cui ho scritto la lettera per essere formato come seminarista diocesano nella diocesi di Njombe.

La mia formazione sacerdotale è iniziata nel seminario minore di San Giuseppe - Kilocha a Njombe e poi nel seminario maggiore di Sant'Agostino-Peramiho a Songea. Sono stato ordinato nel 2014. Ora sto studiando teologia dogmatica presso l'Università Ecclesiastica di San Damaso a Madrid.

Qual è la situazione attuale delle vocazioni native in Tanzania?

Grazie al Signore, in Tanzania abbiamo molte vocazioni autoctone. Abbiamo sette seminari maggiori (uno costruito 6 anni fa) con più di 1500 seminaristi, 25 seminari minori e più di 86 congregazioni religiose con più di 12000 religiosi.

Qual è il lavoro dell'OMP in relazione a queste vocazioni?

Le Pontificie Opere Missionarie hanno un ramo, l'Opera di San Pietro Apostolo, che è un servizio missionario della Chiesa volto a sostenere le vocazioni che nascono nei territori di missione. L'Opera di San Pietro Apostolo (POSPA) è stata creata per sostenere il clero indigeno. La sua missione è accompagnare molti giovani che desiderano rispondere alla loro chiamata al sacerdozio o alla vita consacrata, ma che non hanno le risorse necessarie per completare la loro formazione.

In relazione a queste vocazioni, ci aiuta in vari modi: con la preghiera, pregando per le vocazioni native. Questo è il vostro primo aiuto, perché è una rete di preghiere per questa causa; e con il sostegno finanziario o materiale per le seguenti:

-Costruire/ripristinare seminari maggiori e minori e centri di formazione.

-Borse di studio per seminaristi, per contribuire alle spese ordinarie della vita in seminario e nei centri di formazione (seminari propedeutici nelle diocesi e noviziati nelle congregazioni).

-Stipendi per i formatori dei seminari maggiori e minori.

Come si celebra la Giornata delle vocazioni native in Tanzania?

Collaboriamo con la Pontificia Opera di San Pietro e facciamo una settimana di preparazione alla giornata invitando tutti a pregare per le vocazioni (come una novena). Questo viene fatto sia nelle parrocchie che nelle piccole comunità cristiane e nelle famiglie.

Lo stesso giorno, molti parrocchiani fanno una colletta per sostenere le vocazioni native. Poiché sono poveri, le donazioni sono molto piccole. Invece di contribuire con molto denaro, le persone fanno una donazione di cibo dalle loro fattorie. Questa è la ricchezza che molti hanno nei villaggi. La maggior parte delle donazioni sono mucche, capre, polli, riso, mais, fagioli, frutta di ogni tipo. Perciò è necessario che la diocesi o la parrocchia abbiano un camion o un furgone per portare tutto dai villaggi al seminario o al centro di formazione.

La capacità di dare e di collaborare non si misura solo dalla quantità di denaro o di beni che una persona possiede, ma dalla disponibilità e dal cuore con cui si offre. È importante sapere che anche se le persone sono povere, sono disposte a contribuire con ciò che hanno.

Quali sfide pastorali percepisce nel suo Paese affinché le vocazioni possano continuare a crescere?

In Tanzania, la Chiesa cattolica deve affrontare una serie di sfide pastorali affinché le vocazioni possano continuare a crescere. Alcune di queste sfide includono:

-Povertà e mancanza di risorse: molte aree della Tanzania sono povere, il che può limitare l'accesso all'istruzione e alla formazione necessarie per le vocazioni religiose. La mancanza di risorse finanziarie per sostenere i seminaristi e i candidati alla vita religiosa può essere un ostacolo significativo.

-Accesso all'istruzione e alla formazione: In alcune regioni, l'accesso a un'istruzione di qualità e a programmi di formazione religiosa può essere limitato. Ciò rende difficile preparare adeguatamente i giovani che desiderano seguire una vocazione religiosa.

-Pressione culturale e sociale: in alcune comunità, la pressione culturale e sociale scoraggia la scelta della vita religiosa o sacerdotale. I giovani possono incontrare resistenza o mancanza di comprensione da parte delle loro famiglie e comunità quando esprimono il loro desiderio di perseguire una vocazione religiosa.

-Interazione con altre religioni: La Tanzania è un Paese religiosamente diverso, con un mix di cristianesimo, islam e tradizioni indigene. La Chiesa cattolica deve trovare il modo di dialogare con le altre religioni e culture in modo rispettoso e costruttivo.

-Cambiamenti culturali e secolarizzazione: come in altre parti del mondo, anche la Tanzania si trova ad affrontare la sfida della secolarizzazione e dei cambiamenti culturali, che possono influenzare il declino delle vocazioni religiose. La società moderna e i suoi valori possono entrare in competizione con i richiami vocazionali.

Quali sono, secondo lei, le ragioni per cui ci sono più vocazioni in Africa che in Europa?

Ciò potrebbe essere dovuto a una serie di fattori:

-Una pastorale familiare e giovanile efficace in Tanzania non solo rafforza la fede e la vita spirituale delle persone, ma crea anche un ambiente favorevole al fiorire delle vocazioni native. Concentrandosi sulla formazione olistica, sull'accompagnamento, sull'educazione alla fede e sulla promozione attiva delle vocazioni, la Chiesa in Tanzania può ispirare e guidare un maggior numero di giovani a seguire la loro chiamata a servire Dio e la comunità.

-Forza della fede: in molti Paesi africani, la fede cattolica è parte integrante della vita quotidiana e culturale delle comunità. Questa forza della fede può ispirare un maggior numero di giovani a considerare la vita religiosa o sacerdotale.

-Necessità di servizio pastorale: nelle zone rurali e meno sviluppate, la necessità di servizi pastorali è elevata. Questo può motivare un maggior numero di persone a rispondere alla chiamata a servire le loro comunità come sacerdoti o religiosi.

Contesto socio-economico: in Europa, la società ha subito cambiamenti socio-economici significativi, tra cui un aumento del secolarismo e una diminuzione della pratica religiosa in alcune regioni. In Tanzania e in altri Paesi africani, invece, la religione rimane una parte importante dell'identità culturale e sociale.

-Popolazione giovanile: la Tanzania ha una popolazione giovane, con molti giovani alla ricerca di uno scopo e di un significato nella loro vita. La vita religiosa può offrire loro un modo significativo per vivere la propria fede e servire gli altri.

-Sostegno della comunità: in molte comunità africane esiste un forte sostegno della comunità a coloro che scelgono la vita religiosa o sacerdotale. Questo sostegno può incoraggiare un maggior numero di giovani a seguire questa strada.

-Accesso alle risorse: anche se le risorse possono essere limitate rispetto all'Europa, la solidarietà comunitaria e il sostegno di organizzazioni missionarie come la Pontificia Opera di San Pietro possono aiutare a superare queste sfide e facilitare la formazione vocazionale.

È importante notare che ogni Paese e cultura ha un contesto unico e le vocazioni religiose sono influenzate da una varietà di fattori. Ciò che è certo è che sia in Tanzania che in Europa le vocazioni religiose sono una testimonianza della chiamata di Dio e del desiderio degli individui di vivere la propria fede in modo impegnato e di servire la Chiesa e la comunità.

Mondo

Le origini delle attuali relazioni tra Europa e Turchia

Con questo articolo, lo storico Gerardo Ferrara prosegue una serie di tre studi in cui ci introduce alla cultura, alla storia e alla religione della Turchia.

Gerardo Ferrara-21 aprile 2024-Tempo di lettura: 6 minuti

Secondo la Costituzione della Repubblica di Turchia, il termine "turco", da un punto di vista politico, comprende tutti i cittadini della Repubblica, indipendentemente dalla loro etnia o dal fatto che siano di origine turca. religione. Le minoranze etniche, infatti, non hanno uno status ufficiale.

Tra modernità e tradizione, laicità e risveglio dell’Islam

Le statistiche mostrano che la maggioranza della popolazione parla il turco come lingua madre; una cospicua minoranza parla, invece, il curdo, mentre un piccolo numero di cittadini utilizza l’arabo come prima lingua. Sebbene le stime della popolazione curda in Turchia non siano sempre state attendibili, all’inizio di questo secolo i curdi ammontavano a circa un quinto della popolazione del Paese. Essi sono presenti in gran numero in tutta l’Anatolia orientale, ove costituiscono la maggioranza della popolazione in varie province. Altri gruppi etnici minoritari, oltre a curdi ed arabi, sono greci, armeni ed ebrei (che si trovano quasi esclusivamente a Istanbul), e circassi e georgiani, i quali vivono prevalentemente nella parte orientale del Paese.

Come in altri Paesi dell’area mediorientale, anche in Turchia il modello patriarcale, patrilineare e patrilocale sopravvive in gran parte delle zone rurali, dove le famiglie si radunano attorno a un capoclan e formano delle vere e proprie strutture solidali e sociali all’interno del villaggio, vivendo spesso in spazi comuni o adiacenti. In queste zone, ove la società tradizionale è ancora il modello prevalente, sopravvivono ancora pratiche e costumi ancestrali, che impregnano ogni fase della vita della famiglia (vista come centro della società, molte volte a discapito dell’individuo): dalla celebrazione del matrimonio, alla nascita, alla circoncisione dei figli maschi.

Secondo le statistiche ufficiali, il 99% della popolazione turca è musulmana (per il 10% sciita).

In aggiunta alla maggioranza musulmana, esistono anche piccole minoranze di ebrei e cristiani (questi ultimi divisi tra greco-ortodossi, armeno-ortodossi, cattolici, protestanti).

Il Paese è costituzionalmente laico. Dal 1928, infatti, a causa di un emendamento costituzionale, l’islam non è più considerato la religione ufficiale dello Stato. Da allora, vi sono stati numerosi momenti di tensione causati dalla ferrea laicità imposta dalle istituzioni, percepita da alcuni come una restrizione alla libertà di religione: ad esempio, l’uso del velo (ma anche del tradizionale copricapo turco, il tarbush), è stato a lungo proibito nei luoghi pubblici finché un nuovo emendamento costituzionale, approvato nel febbraio 2008 tra forti polemiche, ha consentito alle donne di indossarlo nuovamente nei campus universitari.

Fino al 1950, inoltre, l’insegnamento della religione non è consentito; solo dopo questa data la legge dello Stato permette l’istituzione di scuole religiose e facoltà universitarie di teologia, ammettendo anche l’insegnamento della religione nelle scuole statali. Ciò mostra un elemento alquanto interessante: se si esclude un’élite laica e urbanizzata, gran parte della popolazione della Turchia rurale è ancora profondamente ancorata alla fede islamica e ai valori tradizionali.

Le forze armate hanno, negli anni, costantemente affermato la propria prerogativa di garanti della laicità della Turchia, la cui importanza è ritenuta da esse fondamentale, tanto da intervenire più volte nella vita pubblica dello Stato ogni qualvolta sia percepito qualunque tipo di minaccia alla laicità stessa che, negli ultimi tempi, sembra più che mai messa in discussione sia per via della presenza di un presidente, Recep Tayyp Erdoğan (il quale, insieme al partito che lo sostiene, l’AKP, si dichiara islamico moderato), sia perché si assiste in generale a un risveglio delle istanze religiose in tutti i campi.

Il movimento di Fethullah Gülen

Fethullah Gülen è ato nel 1938, figlio di un imam, Gülen è stato discepolo di Said Nursi, un mistico di origine curda morto nel 1960, e, divenuto un teologo musulmano, ha fondato un movimento di massa – basato sull’adesione di volontari appassionati che mettono a disposizione anche le proprie risorse finanziarie per la causa – che, partendo dalla formazione di studenti negli anni ‘70, è arrivato a poter contare, nella sola Turchia (dove inizialmente era sostenuto anche da Erdoğan, poi divenuto suo acerrimo nemico, tanto che lo stesso Gülhen è stato accusato di essere uno dei mandanti del fallito colpo di Stato del 2016 ai danni proprio di Erdoğan) su più di un milione di seguaci e oltre 300 scuole private islamiche. Più di 200 sarebbero, invece, le istituzioni scolastiche che divulgano le idee di Gülen all’estero (soprattutto nei Paesi turcofoni dell’area ex-sovietica, dove è più forte l’esigenza di ritrovare un’identità etnica e spirituale dopo secoli di oscurantismo). In più, i suoi sostenitori dispongono anche di una banca, di diverse televisioni e giornali, di un sito web in numerose lingue e di associazioni benefiche.

Il movimento di Fethullah Gülen si presenta come naturale prosecutore dell’opera di Said Nursi, il quale sosteneva la necessità di lottare contro l’ateismo utilizzando non solo le armi della fede, ma anche quelle della modernità e del progresso, unendosi, per perseguire tale obiettivo, ai cristiani ed ai fedeli di altre religioni. Per questa ragione, è divenuto celebre, in patria (da dove, peraltro, ha scelto di trasferirsi negli Stati Uniti per il rischio di accuse contro di lui da parte delle istituzioni turche, che, insieme all’élite laica, lo vedono come un pericolo inaccettabile per l’aconfessionalità dello Stato) e all’estero, come sostenitore della pace e del dialogo interreligioso, arrivando persino ad incontrare personalità di spicco di tutte le maggiori fedi, come Papa Giovanni Paolo II, nel 1998, e vari patriarchi ortodossi e rabbini.

In realtà, l’obiettivo principale del movimento di Gülen è quello di far tornare protagonista l’islam nello Stato e nelle istituzioni della Turchia, esattamente come avveniva in epoca ottomana, e rendere il suo Paese una guida illuminata per tutto il mondo islamico, in particolare per quello turcofono. Da ciò si evince che la matrice del movimento stesso è nazionalista islamica e pan-turca e destinata, per sua natura, a scontrarsi con un altro tipo di nazionalismo presente in Turchia, quello laico e kemalista che, da un lato, guarda all’Europa e all’Occidente come partner ideali di Ankara, ma, dall’altro, non riesce a far fronte a questioni irrisolte che ancora danneggiano l’immagine del Paese nel mondo e provocano sofferenze a popoli interi: quella curda e quella armena, così come quella greca e quella di Cipro del nord.

La Turchia e l’Europa

La Turchia ha chiesto di aderire alla Comunità Europea (ora incorporata nella UE) nel 1959, mentre un accordo di associazione è stato firmato nel 1963. Nel 1987 il premier dell’epoca, Özal, ha chiesto la piena adesione. I legami economici e commerciali tra la Turchia e l’Unione europea (già nel 1990 più del 50% delle esportazioni di Ankara era destinato all’Europa), nel frattempo, diventano sempre più forti e danno un notevole impulso alle richieste della Repubblica di Turchia a Bruxelles che, tuttavia, continua a nutrire forti dubbi nei confronti del Paese euro-asiatico, soprattutto a causa della politica turca in materia di diritti umani (in particolare per la questione curda, che analizzeremo in un articolo successivo), per il delicato tema di Cipro e per il risveglio crescente del conflitto tra laici e religiosi (un ulteriore fonte di preoccupazione è il fortissimo potere dei militari nel Paese, giacché essi sono a guardia della Costituzione e della laicità dello Stato e ciò minaccia seriamente alcune libertà fondamentali dei cittadini).

Nonostante tali perplessità, nel 1996 viene istituita un’unione doganale tra Ankara e l'Unione Europea, mentre i vari governi che si succedono in Turchia moltiplicano i loro sforzi nella speranza di un’imminente adesione: si susseguono riforme in materia di libertà di parola e di stampa, di utilizzo della lingua curda, di innovazione del codice penale e di contenimento del ruolo dei militari nella politica. Nel 2004, inoltre, viene abolita la pena di morte. Nello stesso anno, l’UE invita la Turchia a dare il proprio contributo nella soluzione dell’annoso conflitto che vede da anni contrapposti i greco-ciprioti e i turco-ciprioti, incoraggiando la fazione turca - che occupa, con l’appoggio di Ankara, il nord del Paese - a sostenere il piano di unificazione sponsorizzato dalle Nazioni Unite, che doveva precedere l’ingresso di Cipro nell’Unione Europea. Sebbene gli sforzi del governo di Ankara riescano a spingere la popolazione turcofona del nord a votare a favore del piano, la stragrande maggioranza greca del sud, invece, lo respinge. Così, nel maggio del 2004 l’isola entra a far parte dell’UE come territorio diviso e i diritti e i privilegi derivanti dallo status di Paese membro dell’Unione sono concessi solamente alla parte meridionale dell’isola, sotto il controllo del governo cipriota internazionalmente riconosciuto.

Nel 2005 si aprono finalmente i negoziati formali di adesione della Turchia all’UE. Tuttavia, le trattative sono ad oggi in una fase di stallo sia perché Ankara, pur riconoscendo Cipro come membro legittimo dell’Unione Europea, continua a non voler dare al governo cipriota un pieno riconoscimento diplomatico e si rifiuta di aprire il proprio spazio aereo e marittimo ad aerei e navi ciprioti. I problemi politici, tuttavia, non sono che un piccolo aspetto della più complessa questione turco-europea.

Erdoğan

Non vi è solo Cipro a ostacolare l’ingresso della Turchia nell’UE. Lo stesso presidente Recep Tayyip Erdoğan è il simbolo dell’equilibrio altalenante della Turchia tra Oriente e Occidente.

Erdoğan, nato nel 1954, ha ricoperto diverse cariche politiche prima di diventare presidente della Turchia nel 2014. È emerso come figura prominente nella politica turca durante gli anni '90 come sindaco di Istanbul con una piattaforma islamica conservatrice. Nel 2001 ha co-fondato il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), che ha guidato alla vittoria elettorale nel 2002. Durante il suo mandato, Erdoğan ha guidato il Paese attraverso un periodo di crescita economica. Tuttavia, il suo governo è stato anche oggetto di controversie riguardanti la democrazia, i diritti umani e la libertà di stampa. Erdoğan ha di fatto consolidato il potere attraverso riforme costituzionali (compresa quella del 2017 sul presidenzialismo) e affrontato critiche sia a livello nazionale che internazionale per le sue politiche autoritarie, inclusa la repressione dell'opposizione politica e la limitazione della libertà di espressione. La sua politica estera è stata segnata da un coinvolgimento attivo nei conflitti regionali (tra cui il sostegno a diversi movimenti fondamentalisti islamici) e una politica opportunistica nei confronti dei partner internazionali.

Con la sconfitta alle ultime elezioni amministrative del marzo 2024 nelle maggiori città del Paese, l’era di Erdoğan potrebbe volgere al declino. O no?

L'autoreGerardo Ferrara

Scrittore, storico ed esperto di storia, politica e cultura del Medio Oriente.

Evangelizzazione

Missioni nella Spagna vuota con i giovani del Regnum Christi

"Servendo si entra nel mistero di un Dio che si dona", dice Idris Villalba, che con questa frase dà la chiave delle missioni che ha svolto in questa Settimana Santa con un gruppo del Regnum Christi.

Paloma López Campos-20 aprile 2024-Tempo di lettura: 4 minuti

La "Spagna vuota" è una preoccupazione per molti, compresa la Chiesa. Non sorprende, dunque, che durante il Pasqua Un gruppo di cattolici ha deciso di andare in missione in un villaggio rurale dell'Estremadura per aiutare nelle attività pastorali. Carlos Piñero, vicario per gli affari economici e parroco di due villaggi, Valdefuentes e Montánchez, nella diocesi di Coria-Cáceres, ha accolto per una settimana un gruppo di giovani provenienti dal Regnum Christi.

Don Carlos spiega che Valdefuentes e Montánchez "sono due villaggi a circa 50 chilometri da Cáceres e stanno vivendo una situazione di Spagna svuotata. A poco a poco i giovani se ne vanno, gli abitanti rimasti sono anziani e il tasso di mortalità è alto". Inoltre, "ai giovani che restano manca il punto di riferimento di altri giovani che vivono la fede".

Il caso di Montánchez è un po' più particolare, in quanto si tratta di "una città con una radicata tradizione religiosa, dato che la presenza di comunità religiose si nota da anni". Tuttavia, il parroco sottolinea che "manca ancora il riferimento di un apostolato più impegnato".

Lo spirito delle missioni

Per questo motivo, quando il gruppo di missionari organizzato da Idris Villalba arrivò in Estremadura, don Carlos chiese loro "di aiutare la gente a celebrare la Settimana Santa. Di essere coinvolti nelle diverse attività dei gruppi dei villaggi, in modo che durante queste celebrazioni si sentissero ancora più orgogliosi".

Allo stesso tempo, il vicario e parroco voleva, da un lato, che il gruppo di giovani della città mostrasse che "si può vivere la Settimana Santa coinvolgendosi nella Chiesa". D'altra parte, voleva anche che "i missionari conoscessero le persone per le quali Gesù ha una predilezione, come le persone che stanno attraversando una malattia, un lutto o che sono sole".

Di fronte a queste richieste, il missionario Idris Villalba spiega che l'idea del gruppo "era di mettersi a disposizione per qualsiasi cosa Dio volesse realizzare attraverso questo progetto". Tuttavia, quello che hanno trovato al loro arrivo è stato qualcosa di diverso da quello che si aspettavano, "ma è stato molto fruttuoso".

Idris afferma che la "Spagna vuota" in cui sono andati "non è così vuota". Hanno trovato una comunità da accompagnare "nella vita di tutti i giorni, da un momento di preghiera al mattino con alcune suore, alla visita alle persone per dare loro la comunione e all'assistenza personale agli abitanti in situazioni di difficoltà". Hanno anche aiutato il parroco durante le celebrazioni liturgiche.

Il missionario riassume il suo lavoro nella diocesi dicendo: "In una normale Settimana Santa, nei villaggi in cui siamo stati, abbiamo constatato che oggi ci sono persone che credono che valga la pena donare alcuni giorni della propria vita al servizio degli altri". 

Missioni e ricordo

Missioni Regnum Christi 2024
Interno della chiesa durante una celebrazione della Settimana Santa

La Settimana Santa è un tempo liturgico speciale di raccoglimento e contemplazione. Questa idea può scontrarsi con l'attività missionaria, che consiste nell'"andare verso l'esterno". Idris spiega che questo comporta "il rischio di rimanere superficiali". Infatti, quando è partito con il suo gruppo per questi villaggi dell'Estremadura, pensava "che avrei trascorso una Settimana Santa attiva e impegnata, a immagine di Marta nella casa di Betania". Ma è successo il contrario.

"Anche se abbiamo trascorso molto tempo con le persone con cui eravamo, molti di quei momenti sono stati trascorsi con Cristo stesso". Idris sottolinea che "nel nostro prossimo c'è Cristo. Servendo, si entra nel mistero di un Dio che si dona". Questo, unito alla preghiera e alla liturgia, ha fatto sì che "tutto fosse perfettamente coordinato per fare questa doppia esperienza di 'fare molto' e 'essere molto'".

Identificarsi con Cristo a Pasqua

Questa dedizione dei missionari agli abitanti del villaggio ha avuto un impatto su Idris: "Più ti dai, più ricevi, e ti rendi conto che dietro ogni volto c'è una persona salvata da Cristo". Il giovane cattolico assicura che "si incontra Cristo nella gente. Inoltre, in questa vita quotidiana, Dio compie piccoli miracoli quotidiani che, se sei attento, puoi vedere, il che ti aiuta anche a essere grato e a incontrarlo".

Idris ha scoperto in quei giorni della Settimana Santa "il lavoro missionario a cui siamo chiamati noi cristiani del XXI secolo". Qualcosa che, curiosamente, "molte persone che già servono la Chiesa conoscono, perché di solito sono persone che hanno sofferto molto ma che a un certo punto hanno incontrato Cristo e hanno lasciato tutto per il tesoro nascosto che hanno trovato, alla maniera della parabola evangelica". Qui, pensa Idris, sta il segreto di "questo 'ospedale da campo' di cui parla Papa Francesco".

L'impatto delle missioni

Missioni Regnum Christi
Tre dei giovani membri del Regnum Christi che sono partiti per le missioni

Una volta tornati a casa, i missionari possono fare un bilancio della loro attività nel villaggio. Ma, come dice Idris, "è impossibile quantificare le conseguenze delle nostre azioni, forse si possono vedere nel tempo. Non sappiamo chi abbiamo toccato e non sappiamo cosa abbiamo suscitato o smosso nella comunità".

Da parte sua, don Carlos Piñero, che conosce bene i suoi parrocchiani, afferma che "c'è stato un impatto molto piacevole in poco tempo". Grazie alla presenza dei giovani del Regnum Christi "la gente ha visto un atteggiamento disinteressato e capace, che ha contribuito a rivitalizzare la fede".

Questi giovani venuti dalla città, conclude il parroco, "non erano persone venute solo per partecipare, ma sono venuti e hanno contribuito con quello che potevano. Hanno dato un'ottima testimonianza dell'atteggiamento che noi stessi vogliamo avere".

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Risorse

La Santa Sede e i "nuovi diritti" dell'uomo

Nella recente dichiarazione "Dignitas Infinita" del Dicastero per la Dottrina della Fede, c'è un tema generale che, in realtà, è alla base di gran parte dell'attività diplomatica della Santa Sede oggi: la questione dei nuovi diritti.

Andrea Gagliarducci-20 aprile 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

Si è parlato molto del "Dignitas Infinita"Il Dicastero per la Dottrina della Fede, concentrandosi in particolare sui temi della lotta all'ideologia di genere, del ripetuto no all'aborto e all'eutanasia, e dell'idea di considerare anche questioni sociali come la povertà come un attacco alla dignità umana". C'è però un tema generale che, di fatto, è alla base di gran parte dell'attività diplomatica della Santa Sede oggi: la questione dei nuovi diritti.

Nel 75° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, data di pubblicazione del documento, la Santa Sede ha ripetutamente riaffermato il suo sostegno a quei diritti primitivi, radicati nell'essenza stessa dell'essere umano e sui quali esiste un ampio e unanime consenso. Del resto, all'epoca della stesura della Dichiarazione universale, all'indomani della tragedia del nazismo, c'era bisogno di norme riconosciute a livello internazionale che potessero difendere i valori umani. 

Allo stesso tempo, la Santa Sede non ha mancato di puntare il dito contro i cosiddetti "diritti di terza e quarta generazione", sui quali non esiste un consenso generale e la cui legittimità non è molto chiara. I diritti di terza generazione sono quelli definiti come il diritto alla protezione dell'ambiente e il diritto all'istruzione. C'è poi la quarta generazione di diritti umani, definita come diritto all'autosviluppo, in cui si inseriscono e si innescano anche molte delle iniziative a favore del genere.

La dignità umana

Cosa dice la "Dignitas Infinita"? Sottolinea che a volte "il concetto di dignità La "dignità umana dell'essere umano anche per giustificare una moltiplicazione arbitraria di nuovi diritti", alcuni addirittura "contrari a quelli originariamente definiti", trasformando la dignità in "una libertà isolata e individualista, che pretende di imporre come diritti certi desideri e propensioni che sono oggettivi". 

Tuttavia, aggiunge il documento, "la dignità umana non può basarsi su criteri puramente individuali o identificarsi con il solo benessere psicofisico dell'individuo", ma "si fonda, al contrario, su requisiti costitutivi della natura umana, che non dipendono né dall'arbitrio individuale né dal riconoscimento sociale". 

Anche in questo caso, si legge, per certificare i nuovi diritti è necessario un "contenuto concreto e oggettivo basato sulla comune natura umana". 

Nuovi diritti

La questione è ampiamente dibattuta. Riferimenti a questi nuovi diritti, in forme diverse, si trovano in vari documenti internazionali, dove, ad esempio, la terminologia di genere viene introdotta anche in questioni relative all'accoglienza dei migranti o all'assistenza umanitaria. È interessante notare che Papa Francesco ha già affrontato il tema nel suo discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede nel 2018.

In quell'occasione, il Papa aveva osservato che "in seguito agli sconvolgimenti sociali del '68, l'interpretazione di alcuni diritti è gradualmente cambiata per includere una molteplicità di nuovi diritti, non di rado in conflitto tra loro".

Questo, ha proseguito il Pontefice, ha creato il rischio "un po' paradossale" che "in nome degli stessi diritti umani, si instaurino moderne forme di colonizzazione ideologica dei più forti e dei più ricchi a scapito dei più poveri e dei più deboli".

Il Santo Padre si è spinto oltre, sottolineando che non solo la guerra o la violenza violano i diritti alla vita, alla libertà e all'inviolabilità di ogni persona umana, ma ci sono forme più sottili, come lo scarto di bambini innocenti ancor prima di nascere. Per questo motivo, oltre all'impegno per la pace e il disarmo, il Papa ha chiesto una risposta che presti nuova attenzione anche alla famiglia.

La posizione della Santa Sede

Il punto è che la Santa Sede cerca di guardare a tutti gli scenari in un modo che tenta di abbracciare tutti i problemi attuali.

Da cosa nasce l'approccio della Santa Sede ai nuovi diritti? Dal fatto che essi portano una nuova visione antropologica che si allontana dalla visione della proposta cristiana, e priva la persona delle tre dimensioni del rapporto con se stessi, del rapporto con Dio e del rapporto con gli altri.

La Santa Sede vede in questo il rischio di distruggere la dignità dell'essere umano. Il cardinale Pietro Parolin ha spiegato in un'intervista del 2022 che "non si tratta di una lotta ideologica della Chiesa. La Chiesa si occupa di questi temi perché ha cura e amore per l'uomo, e difende la persona umana nella sua dignità e nelle sue scelte più profonde. Si tratta proprio di parlare di diritti, e di parlarne con amore per l'uomo, perché vediamo le derive che nascono da queste scelte".

È una battaglia in salita per la Santa Sede, che non solo non viene ascoltata, ma addirittura crea fastidio ogni volta che si oppone alla diffusione dei nuovi diritti. Così, il documento "Dignitas Infinita" mette un altro punto sulla questione, e fornisce ai diplomatici della Santa Sede un nuovo strumento per affrontare la questione dei nuovi diritti. È certamente la questione del futuro, ma anche del presente.

L'autoreAndrea Gagliarducci

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Cultura

Giuseppe Pezzini: "Secondo Tolkien, la fantasia aiuta a recuperare lo stupore della realtà".

Giuseppe Pezzini, professore a Oxford, sta partecipando al convegno "Tolkien: l'attualità del mito", che si tiene presso la Pontificia Università della Santa Croce a Roma. In questa intervista, parla di concetti fondamentali del pensiero di Tolkien, come la subcreazione e la sua teoria della fantasia.

Loreto Rios-19 aprile 2024-Tempo di lettura: 7 minuti

Giuseppe Pezzini lavora a Oxford dal 2021, anche se in realtà è nella prestigiosa università inglese dal 2006, avendovi trascorso tutta la sua carriera accademica, compresi il dottorato e il post-dottorato. Attualmente è professore di latino e letteratura latina, oltre a dirigere un centro di ricerca su Tolkien all'interno dell'università, al quale collaborano molti dei suoi colleghi di Oxford.

In questi giorni sta partecipando all'VIII Congresso Internazionale su Poetica e Cristianesimo".Tolkien: Il mito di Tolkien oggi"L'evento si terrà presso la Pontificia Università della Santa Croce a Roma dal 18 al 19 aprile, con relatori come Eduardo Segura, John Wauck e Oriana Palusci, tra gli altri.

Che cos'è la "sub-creazione", un termine coniato da Tolkien?

È necessario comprendere il prefisso "sub", nel senso che la parola "creazione" sappiamo già cosa significa, "creare qualcosa di nuovo", qualcosa che non esisteva prima, e questo è importante, non significa solo "riorganizzare" le cose. Con il prefisso "sub", però, significa che, quando una creatura crea, lo fa sotto l'autorità di un altro. C'è un'autorità superiore a lui, un Creatore che è colui che dà veramente l'essere a tutto, perché l'uomo non è capace di dare effettivamente l'essere al nulla.

Tolkien dice all'inizio del Silmarillion, dove vediamo come il concetto di subcreazione viene introdotto molto chiaramente, che gli Ainur, gli artisti e i subcreatori per eccellenza nell'universo tolkieniano, collaborano al disegno di Eru, l'unico Dio creatore del mondo di Tolkien, ma l'essere della loro creazione non è dato da loro, ma da Dio. Si potrebbe usare l'immagine del parto: la donna dà alla luce un bambino, ma l'anima, l'essere del bambino, non è dato dalla donna. Questo significa "sottocreare": creare sotto l'autorità di un altro. Ma, inoltre, e questo è anche un significato del prefisso "sub", significa farlo "per conto", come si direbbe in inglese, per ordine di un altro: la subcreazione è qualcosa che ci è stato affidato. Quindi, potete farlo perché un altro, che è il Creatore con la c maiuscola, vi ha affidato questo compito.

Nel Signore degli Anelli, Gandalf a un certo punto dice a Denethor che lui [Gandalf] è un amministratore, un guardiano, una persona a cui è stato affidato un compito. Nella subcreazione, devo accettare che l'essere non è dato da me, ma, positivamente, lo faccio perché mi è stato affidato questo compito. Quindi, è anche una vocazione, non solo un hobby personale, un capriccio, ma un compito che mi è stato dato e al quale devo rispondere. La sub-creazione è l'invito alla creazione.

La sua conferenza si intitola "Avranno bisogno di legna": subcreazione ed ecologia integrale in Tolkien". Qual è il concetto di "ecologia" nell'opera di Tolkien?

Etimologicamente, in greco "ecologia" è lo studio dell'"oikos", che è soprattutto la casa, intesa come mondo naturale. Ma, più precisamente, l'ecologia, sviluppando il significato etimologico, è lo studio delle relazioni tra le creature. L'ecologia, per Tolkien, non è solo, in senso stretto, il rapporto con la natura, ma il rapporto tra tutte le identità viventi nel mondo. Credo che in Tolkien la natura non vada intesa come qualcosa di statico, come una roccia.

L'oggetto dell'ecologia riguarda tutto ciò che cresce, è lo studio della relazione tra tutto ciò che cresce nel mondo, e l'ecologia è strettamente legata all'idea di subcreazione, perché il subcreatore è sempre un giardiniere. Al giardiniere è stata affidata la crescita di una pianta, di un campo, ma i semi in questo campo sono stati piantati da qualcun altro, e quindi il compito del subcreatore è quello di occuparsi della crescita di questi altri elementi.

Ecologia significa prendersi cura delle vite che ci sono state affidate, quindi non è solo rispetto o contemplazione della vita di altre creature, ma è la relazione che gli esseri viventi hanno con gli altri esseri viventi. E questa relazione è sempre subcreativa, cioè ha lo scopo di aiutarci a crescere, è sempre uno sviluppo. Questo è molto interessante, perché ci sono alcune visioni ecologiche che concepiscono l'ecologia come un "disimpegno", una passività, "lascio che le cose facciano il loro corso".

L'ecologia cerca di aiutare la natura a svilupparsi. Lo vediamo, ad esempio, nel rapporto tra gli Ents e gli alberi, ma anche Merry e Pipino crescono letteralmente dopo il loro incontro con gli Ents. Anche Gandalf è un ambientalista, potremmo dire che il suo oggetto sono gli hobbit. Il suo compito è quello di prendersi cura delle altre creature. Il legame tra gli hobbit e Gandalf è ecologico e anche subcreativo, perché i due sono legati.

Lei ha commentato in alcune occasioni che Tolkien riteneva che la funzione della fantasia fosse quella di "recuperare la meraviglia della realtà". Qual è la teoria dell'immaginazione di Tolkien?

Tutte queste questioni, infatti, sottocreazione, ecologia e immaginazione, sono collegate, da diversi punti di vista. Che cos'è l'"immaginazione"? Tolkien la chiama "fantasia". Anche lui usa la parola immaginazione, ovviamente, ma nel saggio "Sulle fiabe", il termine che usa è "Fantasia". Significa, dice Tolkien in una lettera, usare le nostre capacità date da Dio per collaborare alla creazione. Quando subcreiamo, lo strumento cognitivo che usiamo è l'immaginazione, stiamo creando un mondo alternativo, o meglio, stiamo aggiungendo un ramo all'albero del mondo, che è un'altra immagine che Tolkien usa: la creazione di Dio come se fosse un albero gigantesco e la subcreazione come se fosse un ramo all'interno di questo albero.

L'albero della creazione, o l'albero della realtà, come lo conosciamo, ha un certo punto subcreatore: cresce una nuova pianta che all'inizio sembra essere diversa dall'albero. Questa pianta nasce dall'immaginazione, è diversa dalla realtà, non è mimetica, non è uno specchio di ciò che già esiste, è qualcosa di nuovo, ma poi, con il tempo, il subcreatore capisce che in realtà questa pianta che sembrava diversa è in realtà un ramo nascosto dell'albero.

Un aspetto importante è che l'immaginazione non può necessariamente utilizzare le regole realistiche del mondo, nel qual caso sarebbe un'altra cosa. L'immaginazione, per sua natura, confonde: le foglie verdi le fa diventare rosa, i cieli grigi o blu le fa diventare viola, e questa perturbazione degli elementi della realtà è il cuore dell'immaginazione. Questo sconvolgimento degli elementi della realtà è il cuore dell'immaginazione. E perché è così importante? Tolkien lo dice bene nel saggio "Sulle fiabe": perché aiuta a "defamiliarizzare" la realtà.

La grande tentazione dell'uomo è quella di possedere la realtà, di credere che sia qualcosa che già conosce. Il grande rischio che l'uomo, la creatura, corre di fronte alla creazione è quello di perdere la meraviglia. Per usare un'immagine, è come se qualcuno raccogliesse ciò che c'è nella realtà e lo mettesse nella sua capanna, nel suo "deposito", come Smaug, il suo "tesoro": lo so già, lo capisco già, lo so già, lo conosco già.

L'immaginazione è un dono dato da Dio agli uomini per aiutare a liberare ciò che è stato rinchiuso nella prigione della nostra possessività. Per questo deve essere sorprendente, per questo non può essere realistica, per questo ci devono essere mostri, draghi, hobbit, tutto ciò che ci rende estranei a ciò che già conosciamo. Questo aiuta a comprenderlo meglio e a recuperare, dice Tolkien, uno sguardo sulla realtà che sia puro, di sorpresa, perché l'unico vero sguardo sulla creazione è uno sguardo di stupore.

L'immaginazione umana aiuta a recuperare questo sguardo ribaltando le regole della realtà, e lo fa all'interno di un'esperienza subcreativa, non separata dal grande albero della creazione, ma come un nuovo ramo aggiunto ad esso.

Tolkien afferma nelle sue lettere che non aveva un piano prestabilito quando scriveva. Lei ha detto che "la cosa più cattolica de Il Signore degli Anelli è il suo processo di composizione". Può commentare questa idea?

Sì, questo è un elemento importante dell'idea di letteratura di Tolkien. Come la subcreazione è analoga alla creazione nel senso che crea qualcosa di nuovo, così la subcreazione è analoga alla creazione nel senso che è gratuita. Questo significa che - lo dice bene Tolkien in una lettera - quando Dio ha creato le cose, lo ha fatto per pura gratuità, è un puro atto di misericordia. E questo, a livello di letteratura, significa che anche la letteratura deve essere un dono gratuito, non ci deve essere alcun calcolo dietro. Il vero scrittore, il vero artista, non usa la letteratura o l'arte per manipolare le menti dei lettori. Dio non fa così con la Creazione, non l'ha creata per manipolare l'uomo, ma come dono. Anche la letteratura, la sottocreazione, deve essere un puro dono.

Più concretamente, significa che Tolkien non ha scritto con un progetto, con una strategia comunicativa, con un'ideologia, nemmeno cristiana. Lo ha fatto come un atto gratuito di affermazione della bellezza. Arte e letteratura sono soprattutto l'espressione di una ricerca della bellezza. Ma questa ricerca, proprio perché è subcreativa, e quindi perché partecipa all'unica creazione, ha, come la creazione stessa, una funzione misteriosa, nascosta, che nasce dalla sua gratuità. La creazione attrae, genera domande nell'uomo, proprio perché non ha questa intenzione.

Tolkien lo dice in una lettera a una ragazza, che la creazione e la realtà esistono innanzitutto per essere contemplate, come qualcosa di gratuito. Ma è proprio per questo che ci si comincia a chiedere da dove venga. La domanda di senso, per essere veramente significativa, nasce da un'esperienza di gratuità.

Per tornare alla sua domanda, Tolkien non scrive con una strategia, non vuole riaffermare valori, non cerca nemmeno di esprimere la sua esperienza cristiana. Tolkien vuole fare della buona letteratura, ma, nel farlo, proprio perché lo fa gratuitamente, la sua letteratura diventa piena di significato, e questo significato deve essere riconosciuto in modo libero dai lettori.

Per questo Tolkien è contrario all'allegoria, non perché i suoi testi non abbiano potenzialmente un significato allegorico, cioè un rapporto con la realtà primaria, con i valori cristiani. Ma questo rapporto è un dono, è qualcosa che "accade", è quel legame che la pianta ha con il grande albero, è un dono che viene da un altro, non è il punto di partenza dell'artista. Altrimenti la letteratura non sarebbe letteratura, sarebbe filosofia, e non sarebbe nemmeno arte, perché l'arte non ha questa funzione. La subcreazione non esprime cose che si conoscono già, è una nuova esperienza, che potremmo definire euristica, di scoperta di qualcosa che non si conosce. Infatti, per Tolkien l'avventura subcreativa è un viaggio in un altro mondo, e quindi non ha una strategia: sta scoprendo qualcosa che non gli appartiene.

Per saperne di più

San Pietro, pietra angolare della Chiesa

Dio ha scelto i nostri missionari, come San Pietro. Non sono perfetti, non hanno il brevetto dell'impeccabilità... sono quello che sono, con tutto il bene e tutto il male che ne consegue... ma il Signore li ha scelti.

19 aprile 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

Mi piace molto il passo in cui il Signore chiede ai suoi: "E voi chi dite che io sia?" E Pietro... con grande forza dice: "Tu sei il Figlio di Dio". Il Signore lo benedice e ne fa la pietra su cui sarà costruita la Chiesa; ma Pietro viene subito ammonito da Gesù con parole dure: "Vattene, Satana, vattene" (Mt 16,13-23).

In questo testo possiamo vedere perfettamente com'è Gesù: ha scelto Pietro, sa com'è, le sue virtù, la sua dedizione e la sua forza, ma conosce anche la sua povertà e i suoi limiti... Sa che, a volte, è un vigliacco e si lascia guidare da criteri meramente umani...

Ma ciò non gli impedisce di riporre in lui la sua fiducia, di affidargli la sua Chiesa. Questo Pietro audace, fermo e coraggioso è anche vile, peccatore e fragile, e sarà "il dolce Cristo in terra", come Santa Caterina da Siena chiamava il Papa.

Non amiamo i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i vescovi o il Papa stesso per le loro virtù. Li amiamo sapendo che, come Pietro, sono persone, con limiti e povertà, ma con un desiderio di santità e di amare Dio, anche se può non essere evidente a causa della loro povertà... Li amiamo perché il Signore li ha scelti! Il Signore non si pente di averli chiamati...

E lo stesso vale per i nostri missionari: non sono perfetti, non hanno il brevetto dell'impeccabilità... sono quello che sono, con tutto il bene e tutto il male che questo comporta... ma il Signore li ha scelti. Sono luce, sono sale, sono lievito che illumina, dà gusto e fa fermentare il mondo a cui sono stati inviati... Non guardiamo solo alla loro povertà o ai loro limiti, tanti o pochi... pregheremo per loro, dovremo guardarli con occhi di misericordia e di carità!

Non sono lì per predicare se stessi, la loro scienza o le loro opinioni, ma per predicare Cristo e Cristo crocifisso. Non cerchiamo di imitare loro, ma colui che predicano: Gesù Cristo.

L'autoreJosé María Calderón

Direttore delle Pontificie Opere Missionarie in Spagna.

Famiglia

Cédric e Sophie Barut, la testimonianza di un matrimonio "insolito

Cédric e Sophie Barut dicono che il loro matrimonio è un po' "insolito". Dopo un incidente che ha lasciato lui su una sedia a rotelle, hanno ricostruito le fondamenta della loro famiglia e ora testimoniano che "ogni prova può portare a un bene più grande".

Paloma López Campos-18 aprile 2024-Tempo di lettura: 10 minuti

Cédric e Sophie Barut hanno formato una coppia giovane che, dopo otto mesi di matrimonio, hanno ricevuto un colpo che li ha fatti perdere il fiato. Aveva salutato la moglie solo poche ore prima per andare a fare un giro in bicicletta, una cosa abituale che lo aiutava a calmare i nervi. Tuttavia, la sera arrivò e Cédric non era ancora tornato a casa.

Preoccupata, Sophie iniziò una corsa alla ricerca del marito. Percorre la strada che lui avrebbe fatto, torna a casa, lo chiama... Niente. Finché non contattò la polizia e le risposte cominciarono ad arrivare. Poco dopo si recò in ospedale, dove finalmente trovò suo marito.

Cédric era stato investito da un autista ubriaco. Mentre il marito era in coma, con complicazioni che i medici indicavano a Sophie ma che lei non riusciva a capire, con la paura come compagna, la giovane moglie sentì il mondo fermarsi.

Fu l'inizio di un'odissea che la coppia affrontò insieme. Svilupparono un metodo di comunicazione quando Cédric non poteva parlare, cercarono di colmare i vuoti lasciati dalla sua amnesia e Sophie affrontò le domande e i pregiudizi di chi la circondava. La vita lavorativa divenne più complicata e dovettero trasferirsi in una casa adattata alla sedia a rotelle di Cédric. Nel frattempo, Sophie scrive la sua vita quotidiana.

"Accueillir", una delle sculture in bronzo di Sophie

A distanza di anni, la sua testimonianza si può leggere in un libro recentemente pubblicato in spagnolo: "Tornerò prima di sera". Oltre alla sua storia, contiene frammenti di poesie di Cédric e accenni alla sculture che Sophie esegue.

In questa intervista, i due protagonisti parlano del ruolo che Dio ha avuto nel rafforzare il loro matrimonio e nel portarlo avanti, della vita che conducono con i loro quattro figli e dei motivi per cui hanno deciso di condividere la loro testimonianza.

Sophie, perché hai deciso di scrivere questo libro e cosa ne pensi di questa decisione, Cédric?

- [Sophie]: All'inizio ho deciso di scrivere questo libro perché un giornalista è venuto a farci delle domande 10 anni dopo l'incidente e io non riuscivo a ricordare tutto. Ho dovuto riaprire un diario che tenevo dai tempi del liceo, che ho continuato a tenere al mio matrimonio e poi durante l'incidente, fino all'arrivo del nostro primo figlio, 5 anni dopo. Ormai avevo smesso di scrivere, intrappolata dalla vita di madre, ma conservavo quei 7 quaderni in un cassetto chiuso a chiave a casa. Ero convinta che non li avrei mai letti a nessuno.

Mentre rileggevo le pagine, mi dicevo che avevamo fatto molta strada, che questa avventura non era un'avventura qualsiasi e che Dio non aveva mai mancato di aiutarci ogni volta che ci eravamo arresi. Mi sono detto che non avevo il diritto di tenere per me tutte le imprese di Dio nella nostra vita.

Era il periodo degli attentati di Parigi e i giornalisti francesi dicevano che tutte le religioni erano vettori di violenza, e io non potevo permettere che lo dicessero. La mia religione cristiana ha salvato me, mio marito e la mia famiglia. È stato Cristo ad aiutarmi ad amare meglio chi mi circonda, ad essere coraggiosa e ad andare avanti. Non potevo tacere.

E poi ho incontrato spesso mogli di persone con lesioni alla testa che erano molto infelici, coppie che si erano separate a causa della disabilità. Mi dicevo: "Se certe parole hanno risuonato con me e mi hanno permesso di andare avanti, perché non dovrebbero fare lo stesso con queste donne? C'è qualcosa di universale nelle scoperte che ho fatto attraverso questa prova.

- [Cédric]: Questo libro è la memoria che non ho. Ha portato alla luce il significato di tutto questo. È una testimonianza che spero possa aiutare altre persone colpite da questa esperienza. Ci sarebbe piaciuto avere un libro del genere tra le mani quando tutto è stato stravolto e ci siamo resi conto della portata della sfida. Sono sempre felice di accompagnare Sophie nelle sue conferenze presso scuole superiori, università, parrocchie e associazioni. 

È possibile mantenere l'abitudine alla preghiera e alla presenza di Dio in mezzo a una vita così insolita?

- [Sophie]: La nostra vita è certamente insolita agli occhi degli altri, ma è la nostra, è l'unica che conosciamo, e abbiamo i nostri punti di riferimento e il nostro ritmo. È un equilibrio a volte fragile, che deve essere reinventato a ogni difficoltà, ma è certo che la preghiera vi occupa il posto che le spetta. Direi addirittura che la preghiera è diventata indispensabile. Senza di essa, la disabilità ci chiude in noi stessi, creando frustrazioni che interferiscono con la nostra relazione. 

Cerchiamo di avere un momento di preghiera di coppia ogni sera per raccomandare a Dio i nostri figli e i nostri genitori, per raccomandarci il giorno dopo e per ringraziare per la giornata trascorsa. La lode è un vero motore di progresso. Ringraziare per tutte le cose belle della giornata: ci sono sempre cose belle. 

Cerco di andare a Messa ogni mattina, poi c'è l'Angelus a mezzogiorno e tutte le piccole parole che dico a Gesù, a Maria e agli angeli custodi durante la giornata. La preghiera è diventata il nostro respiro. A volte la mettiamo da parte perché il ritmo quotidiano ci distrae, ma le conseguenze sono tali che la riprendiamo molto presto.

- [Cédric]: Direi che per me è ancora più facile avere un ritmo regolare di preghiera, perché ho molto tempo tranquillo, molte frustrazioni da offrire, molto aiuto da chiedere.

Mi piace fare ritiri spirituali, spesso accompagnata da un amico e talvolta da un'infermiera. Mi piacciono anche i momenti di adorazione davanti alla Presenza Reale di Cristo, nelle cappelle di Lione. Mi accompagna anche il Rosario, che è un'arma potente.

Cosa ha permesso loro di rimanere fedeli alle loro promesse matrimoniali?

- [Sophie]: Fin da quando ero bambina, il mio ideale era quello di creare una famiglia con un uomo che avrei scelto per la vita. Ho sempre voluto che la mia vita fosse una bella storia, un'avventura meravigliosa, e che non avessi rimpianti quando tutto fosse finito. Ma ero molto fragile, "ipersensibile" come dicevano i miei genitori, e tendevo a drammatizzare ogni piccola difficoltà che incontravo. Non ero "armata" per un'avventura del genere.

Mi sono presto resa conto che se volevo vivere i miei sogni ed essere felice superando le sfide che la vita mi poneva, dovevo collaborare con Gesù. Da sola, mi sono resa conto che non ce l'avrei mai fatta.

Avrei potuto stringere i denti e restare con Cédric per dovere, ma non sarei stata felice, lo so. È stato Dio a darmi l'amore da dare a Cédric. Dio mi ha aiutato ogni giorno a dare vita alla nostra casa, a portare libertà, risate e sorprese. Sono profondamente convinta che senza Dio la mia vita sarebbe stata un profondo disastro, perché le prove possono farti male se sono vissute senza amore.

- [Cédric]: È stato l'amore di sempre per Sophie che mi ha aiutato a rimanere fedele alle mie promesse matrimoniali. Sophie era la mia unica possibilità di tornare a una vita più o meno normale. Non l'avrei lasciata per nulla al mondo.

In base alla sua esperienza, che consiglio darebbe a una coppia di sposi che si trova in una situazione simile?

Cédric e Sophie Barut (Copyright: Tekoaphotos)

- [Sophie]: Il mio consiglio alle coppie che si trovano in questa situazione è di chiedersi prima di tutto: qual è lo scopo della mia vita? Qual è il senso della mia vita? Qual è una vita buona per me, una vita di successo? Quale "segno" voglio lasciare all'inizio della mia vita? Quando mi presenterò a Dio alla morte, cosa ci sarà nella mia "valigia" per questo ultimo viaggio? Perché, in effetti, il nostro tempo su questa terra è come una serie di ostacoli. Superarli significa progredire. Ma attenzione: dobbiamo superarli con amore per crescere nell'amore. E questo non è facile.

E, una volta presa la decisione: gettarsi nelle braccia del Signore, affidare tutto a Lui, piangere, piangere, ridere con Lui, avere un rapporto vero e spontaneo con Cristo. Chiedere senza sosta, ringraziare, contemplare. Vivere il momento che ci è dato senza proiettarci troppo nel futuro o soffermarci sul passato. Vivere con fiducia. Ogni prova può portare a un bene più grande; è una serie di decisioni da prendere, una dopo l'altra.

Ma attenzione: non sto dicendo che tutte le mogli di persone disabili dovrebbero stare con i loro mariti. Alcune disabilità, soprattutto quelle mentali, distruggono il legame e fanno sì che la persona sia totalmente chiusa nella sua malattia. Dio vuole che siamo felici, ma se siamo distrutte dalla presenza di un marito che non prova più affetto per noi, possiamo essere più utili aiutandolo "da lontano", per non affondare con lui. A volte la convivenza diventa impossibile.

Dobbiamo discernere ciò che Dio ci chiama a fare. Ogni situazione è diversa. È importante essere fedeli a noi stessi e a Dio.

Cosa c'è nel matrimonio e nella famiglia che spinge due persone a lottare così tanto per realizzarli?

- [Sophie]: La ricerca della vera gioia. Il desiderio molto egoistico di essere felici, semplicemente.

È come un architetto di fronte a una vecchia casa malconcia: metterà tutta la sua energia per restaurarla, ricostruirla, per far emergere tutto il suo fascino, tutti i suoi angoli e le sue fessure... e questa casa avrà molto più carattere di una casa nuova e perfetta! Non avete scelta: è la vostra casa.

Mi sono trovata in questa situazione il giorno dopo l'incidente: tutto doveva essere costruito su basi così diverse dall'inizio del nostro matrimonio. Che lavoro, che avventura! Ma sentivo che se avessi lasciato lavorare Dio nella mia vita sarei stata felice, veramente e permanentemente felice. Dio avrebbe messo luminosità nella mia vita, al di là delle apparenze. E ha mantenuto le sue promesse.

- [Cédric]: Ciò che mi ha motivato è stato trovare un posto nel mondo. Un posto come marito, un posto come padre, un posto come poeta. Perché sapevo che non avrei mai più potuto lavorare. Dovevo essere utile da qualche altra parte, in qualche altro modo.

Sophie, siete riusciti a gioire dei minimi progressi di Cédric, ma come avete fatto a mantenere viva la speranza?

- [Sophie]: Un amico mi diceva sempre: non puoi aggrapparti al futuro. Finché i medici ti dicono che i progressi sono possibili, credi in un futuro migliore. Tutto è possibile, sempre. A Dio non interessa il tempo. Lascia che la vita accada, un giorno alla volta. Gesù ha detto: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose".

Ogni volta che Cédric faceva progressi, ero davvero felice. E sapevo che Dio mi avrebbe dato i mezzi per superare le difficoltà che si sarebbero presentate. Non dovevo "immaginarle" e annaspare in anticipo. Dovevo solo vivere ogni giorno, un giorno alla volta. Affrontare la sfida del giorno.

Cédric, hai dovuto procedere molto lentamente e nel libro di Sophie vediamo che a volte ti sentivi molto frustrato. Cosa ti ha spinto a continuare a lavorare per recuperare?

- [Cédric]: Prima dell'incidente mi spingevo al limite in bicicletta e nella corsa. Ho mantenuto questo spirito sportivo. Con la mia forza di volontà, cercando di farmi obbedire dal mio corpo. Volevo anche eguagliare il coraggio di Sophie. Vedevo che stava lottando per noi per avere una buona vita e questo era il mio modo di migliorare la sua vita: cercare di riacquistare quanta più autonomia possibile. Essere positiva e andare avanti.

La conversione di Cédric è menzionata nel libro e Sophie include molte note sulle sue preghiere. In quali dettagli specifici puoi sentire il conforto di Dio nei momenti critici?

"Douceur", scultura di Sophie Barut
"Douceur", una scultura di Sophie Barut

- [Sophie]: Sperimentiamo momenti di profonda comunione con Dio. In un'occasione, questo si è manifestato con lacrime di gioia e di pace che non sono riuscita a trattenere davanti al tabernacolo, come se l'amore di Dio si riversasse nel mio cuore aperto. In un'altra occasione, ero convinta che Gesù fosse lì accanto a me, dicendo: "Io mi prenderò cura di Cedric. Tu occupati di essere felice al suo fianco, sviluppa i tuoi talenti, coltiva le tue amicizie e Cedric raccoglierà la tua gioia". Nella mia vita quotidiana, ricevo tanti ammiccamenti da Dio e mi sono detta che un giorno li avrei scritti per non dimenticarli!

Ma ci sono anche momenti di disperazione, quando il Cielo sembra vuoto, nonostante le mie grida di aiuto. In quei momenti, mi dico "sii fiducioso, sii paziente, un giorno avrai la risposta". E funziona. Ma a volte è difficile aspettare.

Sophie, l'atteggiamento che descrive nel libro potrebbe essere descritto come ottimista: si considerava una persona ottimista prima dell'incidente, si considera una persona ottimista ora, o pensa che l'atteggiamento che aveva derivi da una fonte diversa dall'ottimismo?

- [Sophie]: Prima dell'incidente, facevo di una montagna una collina di mole. Tendevo a drammatizzare e a complicare la mia vita. Lo tsunami dell'incidente ha messo le cose a posto. Se volevo sopravvivere, dovevo attenermi alla realtà del momento, placare la mia immaginazione e costruire sulla roccia.

Credo che la fiducia in Dio sia più dell'ottimismo. L'ottimismo è pensare che tutto andrà bene. Io non pensavo che tutto sarebbe andato bene, pensavo che Dio mi avrebbe aiutato a superare qualsiasi cosa dovessi affrontare, qualunque fosse la condizione di Cédric.

Avete diversi figli ai quali non avete nascosto la realtà della vostra storia. Come fate a raccontare loro quello che sta succedendo? Come fate a insegnare loro ad essere pazienti con i vostri diversi ritmi di vita?

- [Sophie]: I bambini sono nati dopo l'incidente del padre. È l'unico modo in cui lo hanno conosciuto. Quindi non si aspettano più di quanto lui possa dare loro. A volte lo hanno paragonato ad altri padri, e questo a volte è stato un po' doloroso, ma quando ora chiediamo loro se avrebbero preferito nascere in un'altra famiglia, rispondono di no. Amano il loro padre così com'è e non lo cambierebbero con nient'altro. Amano il loro padre così com'è e non lo cambierebbero per nulla al mondo.

Il periodo più difficile è stato l'adolescenza, soprattutto a causa di alcune sequele cognitive: le sue amnesie, le sue ossessioni ideologiche e i suoi capricci incontrollabili. Ci sono stati momenti difficili con i figli, ma li abbiamo superati... o quasi! Il figlio più piccolo ha 13 anni e gli altri hanno 16, 18 e 20 anni.

Il ritmo della nostra vita è piuttosto frenetico, perché cerco di fare viaggi regolari con 2, 3 o 4 bambini. Non porto sempre Cédric con me perché gli piace la tranquillità della nostra casa di campagna, accanto ai suoi genitori, in mezzo al nulla. Cédric ha molta libertà perché tutto è progettato per la sua sedia a rotelle elettrica. Può passeggiare da solo nella foresta con il cane e fare la spola tra la nostra casa e quella dei suoi genitori. Non ho più alcuna remora a lasciarlo lì, perché lui vuole stare lì.

Per esempio, nei viaggi che abbiamo fatto io e i bambini, abbiamo potuto soggiornare in una casa sull'albero, andare al mare, vedere il Monte Bianco o sciare sulle Alpi (Cédric odia la neve!) Sono momenti a cui sono particolarmente affezionata e che ci lasciano un bel ricordo. Faccio tutto il possibile affinché la disabilità non occupi troppo spazio nella vita familiare e i bambini abbiano una vita il più possibile "normale".

I coniugi Barut con i loro figli
I coniugi Barut con i loro figli

Nel libro lei parla molto dell'importanza di discutere le cose, che cos'è una buona comunicazione nel matrimonio e nella famiglia?

- [Sophie]: Il mio credo è che tutto può essere detto, ma bisogna sapere a chi, metterlo nel modo giusto e scegliere il momento giusto. Per natura, mi è molto difficile tacere ciò che mi preoccupa. Fortunatamente, Cédric è un grande ascoltatore e a volte dà buoni consigli (quando la sua amnesia gli permette di considerare l'intera situazione). Quando Cédric è triste, lo incoraggio a non trattenere le lacrime. Ci permettiamo di piangere perché ci fa sentire bene e ci permette di andare a fondo delle cose. Esprimere la propria angoscia lo solleva.

È lo stesso con i bambini. Cerco di parlare con loro di tutto. Gli parlo delle mie difficoltà perché non si sentano riluttanti a parlarmi delle loro. Dico sempre loro (e anche a Cédric) che sono tutta la mia vita e che la loro felicità è importante per me, quindi non devono esitare a venire da me perché io possa aiutarli e ascoltarli. L'idea è quella di essere una famiglia unita di fronte alle avversità. La nostra famiglia deve essere un rifugio per loro, mentre loro costruiscono la loro.

Vangelo

La pecora smarrita. Quarta domenica di Pasqua (B)

Joseph Evans commenta le letture della quarta domenica di Pasqua e Luis Herrera tiene una breve omelia in video.

Giuseppe Evans-18 aprile 2024-Tempo di lettura: 2 minuti

Nostro Signore usa le immagini di una pecora, di un pastore e di un gregge di pecore, sia perché erano familiari ai suoi uditori in quella che allora era una società molto rurale, sia perché descrivono così bene il nuovo tipo di comunità che stava creando.

Avrebbe potuto dire: "Io sono il re leone e voi siete i leoni del branco."... Il che avrebbe dato un'idea molto diversa: che siamo chiamati a essere selvaggi e crudeli, a dominare il nostro ambiente con la forza. Ma non è questo il tipo di comunità che Cristo vuole inaugurare.

La scelta della pecora come immagine da parte di Gesù non è quindi una semplice coincidenza. Viviamo in un mondo fortemente individualista in cui, sempre più spesso, le strutture sociali - la famiglia, il senso della nazione - si stanno disgregando. È quindi essenziale rafforzare la nostra convinzione di essere Chiesa, di appartenere alla Chiesa cattolica e di formare una vera comunità, un vero gregge.

Non siamo solo un gruppo di individui che si presentano nello stesso edificio alla stessa ora ogni domenica. Questo è vero anche perché il Vangelo di oggi non è così gentile come potrebbe sembrare a prima vista. Gesù parla di sé come del pastore misericordioso, ma lo fa in un contesto di minaccia e di crisi. È il pastore che si difende dal lupo che attacca, che dà la sua vita in sacrificio per le pecore. La pecora che pensa di essere forte, di poter fare da sola, che si allontana, rischia seriamente di essere divorata dal lupo, a meno che il Buon Pastore non la raggiunga per primo.

Il Vangelo di oggi ci insegna che siamo chiamati a essere pecore, con tutte le cose positive che questa immagine implica: la comunità, l'unità, il lasciarsi guidare e proteggere da Cristo Buon Pastore e l'umiltà di riconoscere il nostro bisogno di protezione, anche se l'immagine della pecora può offendere il nostro orgoglio. Siamo chiamati a essere pecore nel senso che essere cattolici significa essere guidati dalla Chiesa, essere guidati, istruiti e nutriti... In questo mondo individualista siamo chiamati a essere felici di far parte di un gregge, di una comunità, di cui beneficiamo e a cui contribuiamo: la Chiesa e, al suo interno, la nostra famiglia, in cui agiamo anche come buoni pastori - o aiutanti pastori di Cristo - gli uni per gli altri. Dobbiamo resistere alla tentazione di liberarci da ogni vincolo. Tale libertà è illusoria e autodistruttiva. Solo nel gregge di Cristo troveremo protezione.

Omelia sulle letture della quarta domenica di Pasqua (B)

Il sacerdote Luis Herrera Campo offre il suo nanomiliaUna breve riflessione di un minuto per queste letture domenicali.

Vaticano

Il Pontefice elogia la temperanza e definisce la tortura "disumana".

Durante l'Udienza di questo mercoledì mattina della terza settimana di Pasqua, Papa Francesco ha parlato della virtù della temperanza, cioè del controllo della volontà e della sobrietà, frenando l'inclinazione al piacere, cercando la giusta misura in ogni cosa. Ha anche pregato per la liberazione dei prigionieri di guerra e ha definito la tortura inumana.  

Francisco Otamendi-17 aprile 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

Dopo aver affrontato, nelle settimane precedenti, le virtù cardinali della prudenza, della giustizia e del fortezzaPapa Francesco ha spiegato nella sua catechesi in occasione del Pubblico di questo mercoledì della III settimana di Pasqua la virtù della temperanza, basata sulla lettura del Libro del Siracide, nel versetto che dice: "Non lasciare che il tuo desiderio e la tua forza ti portino ad agire secondo i tuoi capricci...".

Il Santo Padre ha fatto riferimento innanzitutto alla civiltà greca, in particolare ad Aristotele, e ha ricordato le sue parole sul potere su se stessi, quando descriveva temperanza  come capacità di autocontrollo e arte di non lasciarsi sopraffare dalle passioni ribelli. La temperanza assicura la padronanza della volontà sugli istinti, è la virtù della "moderazione e della giusta misura".

Dominio della volontà sugli istinti

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, ha insegnato il Papa, ci dice che: "la temperanza è la virtù morale che modera l'attrazione dei piaceri e assicura l'equilibrio nell'uso dei beni creati". Essa assicura", continua il Catechismo, "il controllo della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà. La persona moderata dirige i suoi appetiti sensibili verso il bene, mantiene una sana discrezione e non si lascia trascinare dalle passioni del cuore" (n. 1809). 

La temperanza, ha proseguito il Santo Padre, "è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono per impeto o esuberanza sono alla fine inaffidabili. In un mondo in cui tanti si vantano di dire ciò che pensano, la persona temperante preferisce invece pensare ciò che dice. Non fa promesse vuote, ma si impegna nella misura in cui può mantenerle. Anche con i piaceri la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso degli impulsi e la totale licenza concessa ai piaceri finiscono per ritorcersi contro di noi, facendoci precipitare in uno stato di noia". 

Pensare e dosare le parole

"Quante persone che hanno voluto provare tutto con voracità hanno scoperto di aver perso il gusto per tutto! Quindi è meglio trovare la giusta misura: per esempio, per apprezzare un buon vino, assaggiarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto in un sorso", ha detto.

"La persona temperante sa pesare e misurare bene le parole. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che possono essere ricostruite solo con grande sforzo. Soprattutto nella vita familiare, dove le inibizioni sono minori, tutti corriamo il rischio di non tenere sotto controllo le tensioni, le irritazioni e la rabbia. C'è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per molte cose, come stare con gli altri e stare da soli.

Di fronte all'eccesso, l'equilibrio

"Il dono del temperamento è dunque l'equilibrio, una qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo ci spinge all'eccesso. La temperanza, invece, si sposa con atteggiamenti evangelici come la piccolezza, la discrezione, la dissimulazione, la mitezza", ha concluso il Papa.

"Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l'unico criterio di ogni azione e di ogni parola (...) Non è vero che la temperanza ci rende grigi e senza gioia. Al contrario, fa godere meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la fiducia delle persone sagge, lo stupore per la bellezza del creato. La felicità con la temperanza è la gioia che sboccia nel cuore di chi riconosce e valorizza ciò che più conta nella vita". 

Rilascio di prigionieri di guerra, "tortura disumana".

Prima di impartire la benedizione, il Papa ha ricordato le popolazioni in guerra, e ha fatto riferimento alla Terra Santa, alla Palestina e a Israele, all'Ucraina martirizzata, e in particolare ai prigionieri di guerra, perché siano liberati, e a coloro che sono torturati. "La tortura non è umana", ha detto, perché "ferisce la dignità della persona".

Nel suo saluto ai pellegrini multilingue, il Papa ha salutato in modo particolare i gruppi provenienti da Inghilterra, Irlanda, Finlandia, Indonesia, Malesia, Filippine, Corea e Stati Uniti d'America. "Nella gioia di Cristo risorto, invoco su di voi e sulle vostre famiglie la misericordia di Dio nostro Padre".

Come è stato reso noto, Papa Francesco farà un viaggio apostolico in Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor Est e Singapore nel settembre 2024, in quello che sarà il suo viaggio apostolico più lungo fino ad oggi.

L'autoreFrancisco Otamendi

Vaticano

"Una delle ispirazioni più belle della Chiesa è la GMG".

Le Giornate Mondiali della Gioventù hanno celebrato il loro 40° anniversario lo scorso aprile. Quattro decenni di incontri di preghiera, fede e gioia da cui sono nate molte vocazioni.

Hernan Sergio Mora-17 aprile 2024-Tempo di lettura: 3 minuti

In questo mese di aprile ricorre il 40° anniversario del primo invito di Papa Giovanni Paolo II ai giovani, dando loro la croce della Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) in Piazza San Pietro nell'Anno Santo della Redenzione, piantando così il primo seme di questo grande evento.

A Roma si sono svolte diverse attività per commemorare l'anniversario, tra cui una veglia, due messe e una processione con la croce della GMG in Piazza San Pietro.

"Una delle ispirazioni più belle della Chiesa contemporanea sono le Giornate Mondiali della Gioventù", ha detto a Omnes il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l'Educazione, in un'intervista prima dell'inizio della Messa del 13 aprile 2024.

Il Cardinale Mendonça durante la Messa del 13 aprile

"Papa San Giovanni Paolo II ha interpretato molto bene i tempi e ha visto la necessità, nel nostro momento storico, pensando al presente e al futuro della Chiesa, di prestare particolare attenzione ai giovani, creando all'interno dell'esperienza ecclesiale, uno spazio prioritario per il protagonismo dei giovani", ha aggiunto. "Oggi, a distanza di 40 anni, dopo Papa Benedetto XVI e ora con Papa Francesco - ha proseguito il cardinale - percepiamo che le giornate sono un grandissimo contributo all'esperienza di fede dei giovani.

Anche perché possano diventare - come diceva San Giovanni Paolo II - i primi evangelizzatori di altri giovani".

Interrogato sui frutti vocazionali della GMG, il cardinale Tolentino ha ritenuto che "le Giornate sono uno degli aspetti più belli, perché l'aumento delle vocazioni maschili e femminili - e anche del matrimonio - è stato uno degli effetti più potenti nelle città e nei Paesi in cui la GMG è stata celebrata".

Penso", ha detto il Cardinale, "che ogni Giornata Mondiale della Gioventù lasci un segno indimenticabile nel cuore dei giovani, che si manifesta nella triplice gioia di essere Chiesa, di credere in Gesù Cristo e di annunciarlo.

Ricordando al Cardinale che quando San Giovanni Paolo II convocò la GMG, alcuni profeti di sventura dissero che sarebbe stato un pericolo mettere insieme tanti giovani, il Cardinale ha risposto:

"La cosa straordinaria è vedere che i giovani hanno dato e continuano a dare una grandissima testimonianza al mondo, di rispetto reciproco, di preghiera insieme in mezzo alla strada, di testimonianza di Cristo in modo sereno ed entusiasta".

Il Centro Internazionale Giovanile San Lorenzo (CSL) ha ospitato la celebrazione sabato 13 aprile. L'evento è stato promosso dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita e dalla Fondazione "Giovanni Paolo II per la Gioventù", con la partecipazione di vari movimenti giovanili, come la Comunità cattolica Shalom, che ha offerto un intrattenimento musicale, i Francescani, i Legionari di Cristo, i seminaristi polacchi e altri presenti.

Domenica, il cardinale Lazarus You Heung-sik, prefetto del Dicastero per il Clero, ha presieduto la Messa presso il Centro Internazionale della Gioventù San Lorenzo. La presenza dei due cardinali, uno portoghese e l'altro coreano, ha simboleggiato il ponte tra l'ultima GMG di Lisbona e la prossima del 2027 a Seoul.

La prima GMG

Il 14 aprile 1984, 300.000 giovani provenienti da tutto il mondo arrivarono a Roma, ospitati da circa seimila famiglie romane, il primo raduno di massa di giovani. Dopo la consegna della Croce in Piazza San Pietro, la croce è diventata il simbolo della GMG, affiancata dall'icona della Salus Populi Romani, il Santo Patrono di Roma, donato anche da San Giovanni Paolo II.

L'autoreHernan Sergio Mora