I sociologi italiani Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, sposati dal 1985, con sette figli nati e adottati, ed entrambi docenti universitari a Milano, hanno scritto un libro in cui espongono le loro idee sulle caratteristiche che una "scommessa cattolica" dovrebbe avere per il futuro (La scommessa cattolicaIl mulino, 2019). Sono autori di una dozzina di saggi, sempre sul rapporto tra fede, società e futuro, oltre che docenti attivi. Il loro ultimo lavoro, Supersocietàpubblicato quest'anno, in cui analizzano se ha ancora senso scommettere sulla libertà all'indomani della pandemia e nel bel mezzo di un mondo in guerra.
A La scommessa cattolica si distanziano sia dalla nostalgia per una situazione precedente e presumibilmente migliore nella Chiesa, sia dall'affermazione acritica di tutto ciò che la modernità ha portato; sono convinti che stiamo vivendo un momento in cui non c'è spazio per il "si è sempre fatto così", né per una semplice "manutenzione ordinaria", ma per ricordare con coraggio che il cristianesimo ha qualcosa di nuovo da dire in ogni situazione storica. "Abbiamo bisogno, sostengono, di parole in cammino, parole che cerchino di dare voce e forma alla sensazione diffusa di precarietà; parole capaci di trasmettere l'esperienza della fede dove, come dice Michel de Certeau, la stabilità stessa significa spingersi oltre, verso la ricerca di nuove modalità di presenza e di narrazione".
L'astrazione", una malattia della ragione
Le tesi di Giaccardi e Magatti - questa "ricerca di nuove vie" - sono difficili da organizzare sistematicamente, ma il loro tronco potrebbe essere riassunto così: soffriamo, come cultura, di una malattia della ragione, atrofizzata in un uso puramente strumentale, acutamente descritta in più occasioni da Benedetto XVI; e possiamo guarire da questa situazione solo se seguiamo alcune intuizioni di Papa Francesco, che mirano a cercare di svegliarci da questa sorta di paralisi, mettendo in azione le nostre mani e il nostro spirito.
Il percorso inizia riconoscendo la crisi subita dall'Occidente, causata dall'arma a doppio taglio dell'alleanza tra cristianesimo e ragione. Certo, è un'alleanza che sta al cuore della Chiesa, ma che a un certo punto ha preso una deriva che ci ha definitivamente allontanati dalla realtà concreta per gettarci in quello che chiamano "il mondo dell'astrazione". Seguendo da vicino Romano Guardini, chiariscono che "non si tratta di una critica alla scienza, che è una conquista irrinunciabile dell'umanità, ma all'assolutizzazione del linguaggio scientifico: un linguaggio che costruisce i propri oggetti e che, quando perde la tensione con ciò che non è producibile, misurabile, disponibile, prende una deriva mortale". Quando questa astrazione diventa l'unico modo di vedere la realtà - come di fatto è accaduto - ci abituiamo a separare ciò che è unito, a contrapporre ciò che in realtà è reciproco; questo accade, ad esempio, con le dicotomie vita-morte, corpo-spirito, ragione-sentimento, forma-materia, uomo-donna, soggetto-oggetto, bene-male, individuo-società, essere-essere, ecc. Il desiderio positivo di dare una ragione alla propria fede può finire per racchiudere tutto in teorie lontane dal concreto.
Forse l'astrazione più dolorosa avviene quando cerchiamo di capire noi stessi, quando studiamo l'io come qualcosa di isolato da ciò che ci circonda: famiglia, comunità, cultura, storia, Dio. La conseguenza inevitabile di questo "io astratto" è una solitudine senza precedenti. Secondo gli studi a cui si rivolgono, la percentuale di famiglie composte da una sola persona sta crescendo a un ritmo allarmante di 90% in luoghi come il centro di Manhattan, ma nelle grandi capitali europee è di circa 50%. Ci pensiamo come esseri con una grande capacità di autonomia, come se la felicità dipendesse solo da noi stessi, ma finiamo per scontrarci con una realtà che, anche se la teniamo nascosta dalle reti di esposizione pubblica, è sempre diversa. È paradossale che, nell'era della trasparenza, la sofferenza individuale venga portata in segreto.
Per uscire da questa situazione, Giaccardi e Magatti concludono che la ragione da sola non basta, "non basta parlare del bene e volerlo trasformare in discorso; soprattutto se il bene è talmente intellettualizzato che non riesce più ad accendere energie spirituali, nemmeno quelle più elementari per cui qualsiasi forma religiosa possa generare vita autentica e mettere in moto la realtà".
Una strategia a due punte: lo scarto e il mistero
È allora che i sociologi vedono nella continuità Francesco-Benedetto XVI la chiave di una "scommessa cattolica" che può riconnettersi con la realtà. Benedetto XVI ha fatto una diagnosi accurata del nostro tempo quando ha riconosciuto la perdita della capacità della ragione di illuminare la fede. Nonostante gli avvertimenti profetici di molti - compresi i papi precedenti - sulla deriva assoluta verso una ragione puramente tecnica, si trattava di un movimento difficile da invertire. La domanda è sempre stata: come aprire la nostra ragione al di là della sua funzionalità tecnica?
E qui entra in gioco la risposta di Francesco: la ragione non si apre attraverso percorsi intellettuali. La ragione", scrivono Giaccardi e Magatti, "si apre solo se è pronta a lasciarsi interrogare dalla realtà. Perché è dalla realtà, ascoltata e amata, che verranno gli argomenti indispensabili per uscire dal dominio della ragione strumentale, associato al radicale nichilismo culturale che lo sostiene e lo rende intollerabile. È proprio in questa apertura che il cristianesimo può e deve giocare la sua partita. Assumendo una posizione dinamica che si lascia provocare dall'esperienza umana, soprattutto da ciò che è abbandonato ai margini e che, contrariamente a quanto si crede, costituisce la vera linfa della rigenerazione". È solo a contatto con la periferia che può emergere nuovo sangue.
Per realizzare il compito che Ratzinger ha delineato con tanta precisione sul piano intellettuale", spiegano, "non c'è altra strada che seguire il percorso di Bergoglio". E delineano una possibile strategia che si sviluppa, inizialmente, su due versanti: quello dello scarto e quello del mistero; prendere sul serio il problema del prossimo e prendere sul serio il problema della preghiera. È su queste due frontiere che la Chiesa si gioca il recupero del "senso religioso" che spesso sembra essersi perso.
La prima frontiera - quella del recupero di ciò che è stato scartato dalla società - non riguarda un "umanesimo" o un buonismo in cui, ancora una volta, siamo noi stessi al centro, ma piuttosto il lasciarsi spingere verso quel luogo di incontro che può salvarci; trasformare il nostro prossimo, soprattutto quello delle periferie, in finestre da cui guardare il mondo in modo nuovo. La seconda frontiera è quel grande vuoto che l'uomo contemporaneo, pieno di tutti i suoi desideri appagati, non sa dove riempire: andare alla ricerca dell'alfabeto perduto della preghiera. Se il cristianesimo è sempre partito dal desiderio di Dio che si trova nel profondo del cuore umano, l'obiettivo principale del modello economico dominante è proprio quello di convincerci che non c'è desiderio che non possa essere soddisfatto all'interno dei suoi meccanismi - e quindi non c'è bisogno di salvezza. Infatti, il mercato dipende dal desiderio inestinguibile, dipende dall'entrare in stretta relazione con quel movimento. E non si tratta solo di soddisfare bisogni materiali, ma anche del senso di mistero che la tecnologia cerca di dirottare.
Per questo Giaccardi e Magatti sostengono "una preghiera che sia parola, liturgia, sacramento, rito, ma anche e soprattutto silenzio". Questa è una grande responsabilità della Chiesa nella sfera pubblica contemporanea: prima e più dell'esibizione di certezze granitiche, prima e più di una partecipazione collettiva, siamo chiamati a mantenere vivo nella città il fuoco della preghiera come capacità di abitare la nostra solitudine, di affrontare gli orizzonti ultimi dell'esistenza, di inchinarci davanti al mistero della vita. Contemplare. Vale a dire, ascoltare: l'atto originale e distintivo del credere, che fugge dalle false certezze dell'idolatria per accettare di camminare su sentieri non segnati, seguendo la voce che chiama".
Persone, testimonianza, libertà, fede
Questo per quanto riguarda quello che potrebbe essere un filo conduttore del lavoro di Giaccardi e Magatti. Tra i vari temi che emergono da queste considerazioni, ve ne sono forse quattro particolarmente importanti per ripensare una "scommessa cattolica" sul futuro. Da un lato, l'isolamento dell'io di cui sopra, nel mezzo di una cultura ipermediatizzata in cui raramente abbiamo un contatto diretto con la realtà, rende difficile generare un "popolo", una preoccupazione che gli autori condividono anche con Francesco. Essi sostengono che la Chiesa ha una vocazione necessariamente popolare, nel senso che si propone a tutti, non solo a piccoli gruppi; e, in questo compito, deve sempre tenere presente le condizioni di vita dei suoi contemporanei, le loro speranze e le loro paure, perché è lì che si inserisce il messaggio evangelico, in mezzo a una comunità che condivide lo stesso cammino. D'altra parte, la malattia di cui può essere vittima un popolo individualizzato è il populismo, che sfrutta la frammentazione e l'astrazione, unite al bisogno di appartenenza.
Giaccardi e Magatti pensano che la religione abbia più possibilità della politica di curare le malattie di un popolo individualizzato, anche su piccola scala, in comunità più piccole, ma a patto che si concentri sulla generazione di un'esperienza. "Nessun discorso avrà il potere di incidere sullo schermo, tanto meno sulla coscienza europea, se non nasce da un'esperienza, da una realtà attraversata e amata. Per questo dobbiamo insistere su quanto è stato detto dalle cattedre più importanti: oggi l'unico linguaggio che può parlare è quello della testimonianza, cioè dell'esperienza che parla (...). Su questo punto è possibile parlare anche senza parole; e non dare regole, ma ispirare nuova vita (...). Tutto questo supponendo che, come cattolici e come Chiesa, abbiamo effettivamente visto qualcosa".
Inoltre, riconoscono una grande sfida antropologica nella Chiesa, quella di conciliare fede e libertà, un conflitto le cui radici più specifiche possono essere rintracciate almeno fino a Lutero. È una sfida a cui non basta rispondere con le generalizzazioni, tanto meno cadendo nelle imposizioni da cui giustamente si vuole fuggire. Citando Maritain, entrambi sostengono che è più chiaro che mai che "o il cristianesimo è capace di qualificarsi come religione della libertà o semplicemente non riuscirà a parlare all'uomo contemporaneo".
Infine, se si considera il grande cambiamento culturale nella comprensione dell'autorità, la trasformazione della comunicazione, il liberalismo e la sua enfasi sulla scelta individuale, ecc. a partire dagli anni '60, è logico che ci siano stati cambiamenti anche nel nostro rapporto con la fede. In un certo senso, non è più possibile pensare a una "fede di adesione" che supponeva di "corrispondere il più precisamente possibile a una regola di vita esterna che il soggetto assumeva come proprio punto di riferimento; con il carico di dovere, di sforzo, di disciplina che questo comportava, nel tentativo di conformarsi a quell'ideale". Con l'aggravante che questo modello potrebbe legittimare un potere che custodisce questo "dover-essere", dove non è impensabile una deriva violenta. Oltre al fatto che nulla indica che tale modello sia quello evangelico, conformarsi a un modello esterno è insostenibile quando l'ambiente non spinge più nella stessa direzione. La "ricerca di nuove vie" deve anche scoprire alternative a questa "fede come adesione" - alcune delle quali sono esposte nel suo libro -: vie che scoprano nella modernità un terreno fertile in cui il Vangelo possa crescere.