In un articolo precedente parliamo del Medz Yeghern (armeno: "grande male"), il primo genocidio del XX secolo, una serie di brutali campagne condotte contro l'etnia armena, prima dal sultano Abdülhamid II tra il 1894 e il 1896, poi dal governo dei Giovani Turchi tra il 1915 e il 1916, che portarono alla morte di circa 1,5 milioni dei due milioni di armeni che vivevano nei territori della Sublime Porta.
In un precedente articolo abbiamo parlato del Medz Yeghern (in lingua armena: grande male), il primo genocidio del XX secolo, una serie di brutali campagne condotte contro i cittadini turco/ottomani di etnia armena prima da parte del sultano Abdülhamid II, tra il 1894 ed il 1896, e poi dal governo Giovani Turchi, tra il 1915 e il 1916, che portarono alla morte di circa un milione e mezzo dei due milioni di armeni che vivevano nei territori della Sublime porta.
Nonostante gli storici di tutto il mondo concordino sull’atrocità e i numeri di questo genocidio, la Turchia si rifiuta di riconoscerlo ed è ancora grande il rischio che corrono gli intellettuali turchi che osano parlarne in patria. Persino il premio Nobel per la letteratura nel 2006, Orhan Pamuk, della Turchia, è stato accusato di “vilipendio dell’identità nazionale turca” secondo l’articolo 301 del Codice Penale turco che riguarda la libertà di espressione (o, in questo caso, la mancanza di libertà di espressione), come chiunque osi parlarne. Lo stesso era avvenuto a Hrant Dink, giornalista turco di origine armena già condannato nel 2005 a sei mesi di reclusione per suoi articoli sul Genocidio armeno. Dink, più volte minacciato di morte, fu infine ucciso nel 2007 mentre usciva dalla redazione del suo giornale Agos (il processo al suo assassino portò alla luce tutta una serie di legami occulti tra lo Stato, i servizi segreti e gruppi ultranazionalisti in un’organizzazione segreta chiamata Ergenekon che sarebbe stata legata anche all’omicidio di don Andrea Santoro del 2006).
Altra questione rovente e irrisolta è quella dei curdi, popolo di lingua indoeuropea (la lingua curda è molto vicina al persiano), che vive tra l’Anatolia orientale, l’Iran occidentale, il nord dell’Iraq, la Siria, l’Armenia ed altre zone adiacenti, un’area generalmente conosciuta come Kurdistan. Si stima che i curdi siano oggi tra i 30 e i 40 milioni.
Popolo in origine nomade, i curdi divennero stanziali dopo la Prima guerra mondiale (furono indotti dai Giovani Turchi a partecipare ai genocidi armeno, greco e assiro e stanziarsi proprio sulle proprietà dei deportati e degli uccisi), quando i trattati internazionali posero delle frontiere all’interno del vasto territorio nel quale essi si erano mossi liberamente fino ad allora per consentire le migrazioni stagionali delle greggi. Nonostante il Trattato di Sèvres, redatto nel 1920 e mai ratificato, prevedesse la creazione di un Kurdistan indipendente, il successivo Trattato di Losanna (1923) non tornò a menzionare l’argomento e la patria storica dei curdi si presenta tuttora divisa tra vari Stati, contro i quali sono sorti nel tempo diversi movimenti separatisti curdi.
I cittadini turchi di etnia curda sono stati sempre discriminati dai governi di Ankara, che hanno cercato di privarli della loro identità culturale designandoli come “turchi di montagna”, bandendo la loro lingua (a volte definita un semplice dialetto turco) e vietando loro di indossare abiti tradizionali. Le varie amministrazioni turche hanno anche soppresso – il più delle volte violentemente – ogni spinta autonomista nelle province orientali (continuano, ad esempio, a intervenire escludendo i candidati esponenti di partiti curdi alle elezioni amministrative, comprese le ultime di marzo 2024), incoraggiando altresì la migrazione dei curdi verso la parte occidentale e urbanizzata del Paese, in modo da consentire una diminuzione della concentrazione di questa popolazione nelle regioni montane e rurali.
Nel corso del XX secolo, si sono verificati diversi episodi di insubordinazione e ribellione da parte della popolazione curda e, nel 1978, Abdullah Öcalan costituì il Kurdistan Workers Party (Partito dei Lavoratori Curdi, conosciuto con il suo acronimo curdo, PKK), un partito di ispirazione marxista il cui obiettivo dichiarato è la creazione di un Kurdistan indipendente.
Dalla fine degli anni ‘80, i militanti del PKK, attivi principalmente in Anatolia orientale, sono costantemente impegnati in operazioni di guerriglia contro il governo centrale ed in frequenti atti di terrorismo.
Gli attacchi del PKK e le rappresaglie del governo si intensificarono negli anni ‘80 fino a scatenare una vera e propria guerra civile nella Turchia orientale. Dopo la cattura del leader Ocalan nel 1999, le attività del PKK si sono drasticamente ridotte.
Dal 2002, per via delle pressioni da parte dell’Unione europea, Ankara ha autorizzato l’utilizzo della lingua curda nelle trasmissioni televisive e nell’insegnamento. Tuttavia, la Turchia continua a condurre operazioni militari contro il PKK, comprese delle incursioni nel nord dell’Iraq, fino ad oggi.
I greci anatolici
Prima della Prima guerra mondiale, i greci erano una fiorente comunità in Asia Minore, una terra che avevano abitato fin dai tempi di Omero. Si stima che fossero circa 2,5 milioni, con almeno 2.000 chiese greco-ortodosse, specialmente a Costantinopoli, lungo la costa egea (in particolare a Smirne) e nel Ponto (regione settentrionale dell’Anatolia lungo la costa del Mar Nero la cui capitale, Trebisonda, fu il centro dell’Impero omonimo, con a capo la dinastia dei Comneni, l’ultimo a cadere sotto il dominio degli ottomani).
L’ascesa del nazionalismo turco all’inizio del XX secolo acuì il sentimento anti-greco già strisciante nell’Impero Ottomano, tanto che il regime dei Giovani Turchi, guidato dai Tre Pascià (i massoni Ismail Enver, Ahmed Jemal e Mehmed Talat) ordì, e nella fattispecie ne fu Enver il principale responsabile, i tre grandi genocidi (armeno, assiro e greco) proprio per “ripulire” l’Impero da tutte le minoranze cristiane. Enver, già responsabile del massacro degli armeni, dichiarò all’ambasciatore britannico sir Henry Morgenthau di prendersi tutta la responsabilità di milioni di morti cristiani.
Per quanto riguarda i greci, la catastrofe prese la forma sia di vero e proprio genocidio, nel Ponto, tra il 1914 e il 1923, quando la popolazione greca locale fu massacrata o deportata, in marce forzate, verso le regioni interne dell’Anatolia e verso la Siria (vicenda narrata in un bellissimo libro scritto dalla figlia di una delle vittime: Not even my name, di Thea Halo). Si stima che trovarono la morte almeno 350 mila greci, circa la metà della popolazione, mentre i sopravvissuti furono deportati.
In Asia Minore, invece, si verificò quella che è conosciuta dagli storici greci come “Catastrofe dell’Asia Minore”, una serie di eventi che portò all’abbandono definitivo della regione da parte della quasi totalità della popolazione greca che aveva vissuto, prosperato e abitato la Ionia fin dall’XI sec. a.C. Tali eventi sono anzitutto la sconfitta della Grecia nella Guerra greco-turca (1919-1922), con i massacri che ne seguirono, e l’incendio e della grande città di Smirne (1922) in cui perirono tra le fiamme, o gettandosi in mare, circa 30 mila greci e armeni cristiani, mentre in 250 mila lasciarono definitivamente la città distrutta.
La conseguenza di ciò fu lo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia, sancito dal Trattato di Losanna del 1923 che, di fatto, ripristinava le relazioni diplomatiche tra le due nazioni: da un milione e mezzo a tre milioni di greci furono costretti ad abbandonare il territorio turco per insediarsi in Grecia (secondo un censimento greco del 1928 si erano insediati solamente in Grecia 1.221.849 profughi su un totale di 6.204.684 abitanti, il 20% della popolazione del Paese!), mentre dai 300 mila ai 500 turchi lasciarono la Grecia per insediarsi in Turchia.
Gli ebrei
Prima del 1492, data dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna e dal Portogallo, vi era in Turchia una comunità ebraica conosciuta come romaniota, perché di cultura mista greco-ebraica. Gli ebrei che giunsero dalla penisola iberica contribuirono enormemente al miglioramento della situazione economica e culturale della comunità intera.
A differenza dei cristiani, nel 1908, la comunità ebraica in Turchia sembrò conoscere un miglioramento della propria condizione con la rivoluzione dei Giovani Turchi ma va detto che, almeno fino al 1923, anno della proclamazione della Repubblica turca, solo pochissimi cittadini di fede israelitica, nonostante i secoli di permanenza nell’Impero ottomano dopo l’esilio dalla Spagna, conoscevano la lingua turca, avendo continuato a parlare orgogliosamente la loro lingua madre, il giudeo-spagnolo, parlato ancora oggi da poche persone.
Tra alti e bassi, fino alla proclamazione dello Stato d’Israele, la comunità ebraica di Turchia ha continuato a rimanere nel Paese fino all’emigrazione di massa, che vide circa 33 mila ebrei turchi trasferirsi nel neonato Stato ebraico solo tra il 1948 e il 1952, per la crescente instabilità della sua condizione ma ancor più per le aspettative di vita nel nuovo Paese. Oggi, dei circa 100 mila ebrei presenti in Turchia nel XIX secolo, ne rimangono circa 26.000 (la seconda più grande comunità ebraica in un paese musulmano dopo l’Iran), concentrati per lo più a Istanbul.
La minoranza cristiana
È ben nota l’importanza dell’Anatolia per il cristianesimo. Qui, infatti, a Tarso, nacque San Paolo; qui si tennero i primi sette Concili ecumenici della Chiesa; qui, tradizionalmente, Maria, madre di Gesù, visse gli ultimi anni della sua vita (a Efeso, ove è stata rinvenuta quella che per molti è la casa in cui abitò con il discepolo Giovanni).
Tuttavia, se prima della caduta dell’Impero ottomano solamente a Costantinopoli i cristiani erano circa la metà della popolazione, e il 16,6% in Anatolia, oggi se ne contano solamente 120 mila (lo 0,2%), un calo drammatico più che in qualunque altro Paese islamico, soprattutto a causa dei genocidi armeno, greco e assiro, delle deportazioni di massa e degli scambi di popolazione tra Grecia e Turchia. Di essi, 50 mila sono armeni apostolici, 21 mila circa cattolici (tra latini, armeni, siri, caldei), solamente 2 mila greci ortodossi, 12 mila siro-ortodossi e 5 mila protestanti.
La vita dei cristiani nel Paese non è sempre facile. Difatti, se, con il Trattato di Losanna (1923) la Turchia si era impegnata formalmente a garantire completa tutela della vita, della libertà e dell’uguaglianza giuridica a tutti i suoi cittadini, indipendentemente dal credo religioso, e “completa protezione alle chiese, le sinagoghe, i cimiteri ed altre istituzioni religiose delle minoranze non musulmane” (art. 42, par. 3, riga 1), di fatto non ha riconosciuto alcuno statuto alle proprie minoranze religiose che non siano quella armena, quella bulgara, quella greco-ortodossa e quella ebraica (queste ultime considerate, tuttavia, solamente “confessioni ammesse”). Di conseguenza, non è consentito alle comunità religiose non islamiche possedere beni né acquistarli (solamente mantenere chiese, sinagoghe, monasteri e seminari già esistenti e in uso nel 1923, ma di fatto molti beni sono stati confiscati e nazionalizzati dallo Stato turco). Essendo poi il regime delle millet stato abolito, non è più consentito ai capi religiosi di rappresentare le rispettive comunità (fino al 2011 non si è avuto in Turchia neppure un parlamentare cristiano).
Oggi si parla di una crescente “cristianofobia” in Turchia, dato un numero crescente di musulmani che chiede di essere battezzato in qualche Chiesa cristiana (numero in realtà alquanto esiguo, almeno ufficialmente), in un Paese in cui l’islamismo, il nazionalismo o entrambi sono sempre più in voga.
Scrittore, storico ed esperto di storia, politica e cultura del Medio Oriente.