Vaticano

Quale è il ruolo della diplomazia pontificia in Terrasanta?

La posizione diplomatica della Santa Sede sulla situazione in Terra Santa si basa sulla ricerca di una pace giusta e di una situazione che preservi gli esseri umani e la loro dignità.

Andrea Gagliarducci-28 febbraio 2024-Tempo di lettura: 4 minuti

Papa Francesco incontra il rabbino capo di Roma, novembre 2023 ©OSV

Per comprendere la posizione della Santa Sede sulla situazione in Terrasanta, e in particolare la sua posizione diplomatica, si deve partire da un dato fondamentale: la diplomazia degli Stati serve gli Stati, i loro confini, i loro interessi; la diplomazia della Santa Sede è al servizio dell’uomo. È una chiave di interpretazione cruciale per comprendere le azioni a volte misteriose della diplomazia pontificia, tese non solo alla ricerca della pace a tutti i costi (perché la pace deve essere prima di tutto giusta), ma piuttosto alla ricerca di una situazione che preservi prima di tutto l’essere umano e la sua dignità.

Senza questa chiave interpretativa, non si può situare nel giusto contesto il modo in cui la Santa Sede ha operato riguardo alla situazione in Terrasanta. Un breve riassunto: il 7 ottobre 2023, un attacco terroristico perpetrato da Hamas nel cuore di Israele ha provocato più di 273 vittime militari e più di 859 civili, secondo i dati risalenti allo scorso dicembre. Un attentato durissimo, corredato dalla presa di numerosi ostaggi, che ha suscitato la reazione di Israele, anche quella durissima. Israele si è concentrata sulla Striscia di Gaza, da dove sono partiti gli attacchi, considerato punto nevralgico delle azioni dei terroristi. Da Gaza, partono tunnel che nascondono i terroristi e li fanno arrivare in territorio israeliano. A Gaza, i terroristi di Hamas hanno il loro circuito, e si nascondono dietro la popolazione civile, stabilendo i quartier generali vicino o dentro obiettivi sensibili come ospedali e case religiose.

Da qui, la reazione israeliana, che continua tutt’oggi, e che mira ad estirpare completamente tutto il gruppo terroristico di Hamas. Nel corso dei contrattacchi israeliani, sono stati colpiti anche edifici religiosi, e sono stati uccisi civili che niente c’entravano con la guerra, mentre la situazione a Gaza è rimasta complicatissima, e la Chiesa cattolica locale, così come le altre confessioni religiose, è in prima linea nel portare aiuti ad una popolazione stremata. Secondo alcuni dati, diffusi anche da Hamas, la reazione israeliana ha provocato 30 mila morti.

Un pericolo esistenziale per Israele

La reazione di Israele nasce da una motivazione profonda: è uno Stato in pericolo esistenziale, perché circondato da Stati che ne vorrebbero la distruzione e l’annientamento. E la Santa Sede questo lo sa, tanto è vero che, poco dopo lo scoppio della guerra, si sono intensificati i contatti con l’Iran, considerato da molti una sorta di “convitato di pietra” del conflitto. C’è stata una telefonata di Papa Francesco con il presidente iraniano al Raisi, il 5 novembre 2023, su richiesta, tra l’altro, di Teheran.

Questa telefonata aveva avuto un precedente il 30 ottobre 2023, quando l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ministro vaticano per i Rapporti con gli Stati, aveva avuto un colloquio telefonico con il suo omologo iraniano Amir Abdollahian. Anche questa conversazione era stata sollecitata da Teheran. La Sala Stampa della Santa Sede, nell’occasione, prese la gestione della comunicazione, sottolineando che “nella conversazione, monsignor Gallagher ha espresso la seria preoccupazione della Santa Sede per ciò che sta accadendo in Israele e Palestina, ribadendo l’assoluta necessità di evitare l’allargamento del conflitto e di raggiungere una soluzione di due Stati per una pace stabile e duratura in Medio Oriente”.

Ogni parola del comunicato era pesata. In particolare, il riferimento alla soluzione dei due Stati implicava che la Santa Sede non avrebbe mai accettato, nemmeno come eventualità, la non esistenza dello Stato di Israele.

L’equidistanza della Santa Sede

Non c’erano, dunque, dubbi sull’equidistanza sulla Santa Sede. Tanto più che il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, aveva visitato prima l’Ambasciata di Israele presso la Santa Sede e poi quella di Palestina presso la Santa Sede, in un gesto di vicinanza alle sofferenze dei popoli ma anche di tacito sostegno alla soluzione dei due Stati.

Eppure, c’è stato un momento di crisi quando, lo scorso 13 febbraio, il Cardinale Pietro Parolin aveva parlato a margine della commemorazione della revisione del Concordato tra Santa Sede e Italia. Il Segretario di Stato vaticano aveva, sì, condannato senza se e senza ma l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, ma aveva anche stigmatizzato la sproporzionalità della risposta israeliana, che aveva provocato a Gaza 30 mila morti.

Dichiarazioni che avevano suscitato la pronta reazione dell’Ambasciata di Israele presso la Santa Sede. In una nota, l’Ambasciata aveva replicato che il Cardinale stesse utilizzando il conto dei morti di Hamas, e che la risposta non era sproporzionata, perché basata sul diritto internazionale.

Nel descrivere le dichiarazioni del Cardinale, l’ambasciatore aveva usato il termine inglese regrettable, che nella traduzione italiana era stato reso con deplorevole, sebbene regrettable abbia una connotazione più lieve di “deplorevole”.

L’ambasciata di Israele ha poi chiarito che si trattava di un errore di traduzione, che la traduzione più corretta sarebbe “infelice”, in quello che è sembrato un atto dovuto proprio alla luce dell’equidistanza sempre dimostrata dalla Santa Sede.

Un modello diverso di diplomazia

È in situazione come questa che si nota la differenza tra la filosofia diplomatica della Santa Sede e la filosofia diplomatica degli Stati. La Santa Sede, infatti, guarda alle persone, e dunque non può rimanere indifferente di fronte al numero di morti e alle difficoltà della popolazione, anche quando gli atti di guerra sono una reazione e anche quando lo scenario di guerra è profondamente inquinato dai terroristi – e anche da supporti al terrorismo insospettabili, con cellule di supporto individuate persino nelle agenzie delle Nazioni Unite.

Gli Stati devono difendere la loro esistenza da ogni possibile minaccia, e la loro diplomazia ha questo obiettivo primario.

Poi ci sono le Chiese sul territorio, e da subito queste hanno chiesto ad Israele una reazione proporzionata, hanno messo in luce le difficoltà che vive la popolazione di Hamas, hanno preso una posizione anti-terrorismo ma di certo favorevole alla popolazione locale, a qualunque nazionalità questa appartenga.

Anche le dichiarazioni delle Chiese sono state spesso criticate dall’ambasciata di Israele presso la Santa Sede, che lamenta, in generale, una narrativa troppo sbilanciata in favore delle teorie di Hamas. Eppure, se la Chiesa vive la popolazione locale e le sue difficoltà, non è forse logico che la prima preoccupazione riguardi la popolazione?

All’inizio del conflitto, il Cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca Latino di Gerusalemme, commentò che la Chiesa non poteva prendere un linguaggio politico.

Sta qui la grande lotta per un equilibrio della diplomazia della Santa Sede. Nessuno potrà mai dire che la Santa Sede ha appoggiato gli attacchi del 7 ottobre, o che ha condiviso anche solo una minima parte delle idee di quanti negano ad Israele il diritto all’esistenza. Ma nessuno potrà dire che la Santa Sede non abbia ascoltato il grido di dolore della popolazione di Gaza, e questo nonostante la consapevolezza che quel grido di dolore potesse essere strumentalizzato.

L'autoreAndrea Gagliarducci

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