La realizzazione della relazione d'amore tra un genitore e un figlio richiede una costante educazione della mente e del cuore. La genitorialità si realizza giorno dopo giorno attraverso le scelte che si compiono sia nelle situazioni di normalità sia nell'imperfezione delle relazioni quotidiane. Sono queste alcune delle riflessioni che la neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta italiana Mariolina Ceriotti Migliarese ha raccolto nel suo recente libro Genitori e bambini. Percorsi di genitorialità.
Omnes ha avuto l'opportunità di porgli alcune domande su questi temi, che sono stati affrontati anche in un incontro pubblico presso la Pontificia Università della Santa Croce.
Cosa significa essere genitori oggi?
-Innanzitutto, bisogna partire dal presupposto che essere genitori non significa essere fisicamente padri di figli; si tratta di una posizione adulta, che non si improvvisa, ma si prepara passo dopo passo. D'altra parte, nel ciclo di vita di ogni persona, diverse fasi si susseguono e si intersecano, formando una sorta di percorso, scandito da tappe evolutive, ognuna delle quali ha un compito specifico, possibile una volta raggiunto il compito precedente.
Stiamo parlando in questo senso di una sorta di generatività?
-Esattamente. Lo psicoanalista Erik Erikson, per esempio, sostiene che l'età adulta ha come compito evolutivo specifico proprio lo sviluppo del generatività. In questo senso, egli afferma che "la persona che ha una vera competenza adulta è quella che è in grado di generare".
Ciò si collega anche a concetti come procreazione, produttività e creatività: generare nuovi individui, nuovi prodotti e nuove idee e sviluppare la capacità di generarli nuovamente, crescendo nel tempo.
Non si tratta solo di mettere al mondo cose nuove, ma anche di essere in grado di prendersene cura, di spostare il proprio baricentro personale dalla cura esclusiva di se stessi alla cura (e alla dedizione) di ciò che si è generato.
Bisogna avere delle "competenze" per essere generativi?
-Certe competenze sono indubbiamente necessarie, ma sono possibili finché i precedenti compiti di sviluppo, che iniziano nell'infanzia e nell'adolescenza, sono integrati nella personalità.
Oggi, non solo questo "compito" sembra essere diventato particolarmente difficile, ma lo stesso tema dell'identità come obiettivo positivo è stato messo in discussione. Ci si chiede infatti se abbia davvero valore definirsi in modo stabile o se non sia piuttosto la cosiddetta "fluidità", la non definizione...
D'altra parte, il generatività è quella competenza adulta che ci dà la possibilità e la capacità di andare oltre l'amore narcisistico (anche legittimo) di sé, per aprire il cuore, la mente e la vita a ciò che trascende il sé, a partire dai bambini, ma non solo.
Come si realizza questa capacità nel caso del maschio?
-Questa capacità, che è una capacità procreativa e creativa, è possibile sia nell'uomo che nella donna, che però la sviluppano in modo diverso. Possiamo dire che il paterno è la forma maschile dell'essere generativo, cioè capace di prendersi cura di ciò che viene generato, in modo specificamente maschile.
Aggiungerei che l'esperienza generativa (correttamente intesa) è, in quanto tale, un'esperienza di profondo benessere, perché si oppone all'esperienza della "stagnazione".
Donald Winnicott, pediatra e psicoanalista, sosteneva che il modo in cui l'uomo si sente felice è la sua capacità di sviluppare la creatività.
Può dirci qualcosa di più sul significato di genitorialità?
-La genitorialità, in quanto atto generativo, implica il coraggio di dare la vita a un altro essere umano e di assumersi la responsabilità di prendersene cura.
A differenza della maternità, il legame con il bambino non è primariamente biologico: se la madre viene nominata come tale dal bambino (la madre è madre dal momento stesso in cui un bambino nasce in lei), il padre diventa padre quando accetta di riconoscersi come tale.
Il padre diventa sempre padre attraverso la donna, e la sua relazione con il bambino nasce così sotto il segno della triangolazione. La sua posizione è diversa, forse possiamo dire "più libera"; comporta una diversa distanza relazionale (non all'insegna della simbiosi).
Questa posizione triangolata fin dall'inizio è la specificità del padre e comporta un modo diverso di stabilire il legame. Un modo non meno intenso, non meno importante, non meno necessario; un modo complementare a quello della madre.
Cosa caratterizza, secondo lei, un "buon rapporto" tra padre e figlio?
-Per un credente, si tratta di capire come essere padre alla maniera del Padre. Se guardiamo ai Vangeli, diversi passaggi ci mostrano in modo significativo le caratteristiche di un "buon" rapporto padre-figlio.
Spesso c'è un "riconoscimento" del Figlio (si pensi, ad esempio, ai racconti del Battesimo di Gesù); anche la paternità umana inizia sempre con un riconoscimento, è una scelta che richiede consapevolezza e responsabilità.
Poi c'è il "compiacimento", che sottolinea qualcosa di bello e prezioso; non a caso ciò di cui un figlio ha bisogno nei confronti del padre è lo scambio di stima (essere stimati da colui che stimiamo).
C'è anche l'"invio", che è la vocazione stessa del figlio, che desidera un padre che si preoccupi della sua libertà, che lo incoraggi a capire dove sta andando il suo vero desiderio. E ancora, il tempo da trascorrere insieme, per giocare, condividere attività, scambiarsi confidenze?
Cosa chiede un figlio a suo padre?
-Sicuramente vi chiede di riconoscerlo come figlio, di fargli sentire che il padre apprezza il suo valore. Gli chiede di insegnargli il valore delle cose, la via del bene; di sostenerlo nella ricerca della propria vocazione; di dargli fiducia e tempo, anche per fare le cose insieme; di essere curioso senza pregiudizi dei suoi progressi, e di mostrargli tenerezza, certamente nel modo dei padri, che è diverso da quello delle madri. Aiutatelo a non avere paura dei limiti, del dolore, della morte, e ad avere pazienza, sapendo che se il padre c'è, il bambino non si sentirà mai solo.