Anche loro hanno bisogno di una vacanza, di parole, di una pausa per tornare al lavoro con la mente fresca.
Anche loro si sono consumati in mesi difficili: hanno fatto gli straordinari per cercare di esprimere la complessità che abita intorno e dentro di noi, hanno lottato per catturare la nuova normalità che ha sostituito quella vecchia e più comoda, almeno nel modo nostalgico in cui la ricordiamo. Alcuni sono ormai logori e vengono pronunciati in modo tanto automatico quanto monotono: non si sente più uscire dalla bocca una gamma che va da "sono stanco" a "mi sento esausto" fino a "non vedo l'ora che arrivino le vacanze".
"Non sopporto più la maschera", le parole sullo schermo si sono consumate, come se fosse la maschera a essere in più, e non ciò da cui ci difende. Altri sono diventati - in agosto - nevrastenici, carichi come mine in procinto di esplodere. Più cresce la tensione nell'atmosfera, più le parole che ci scagliamo addosso rischiano di fare danni, come armi che in un attimo producono detriti, pesanti da eliminare. Sono parole che, un attimo prima della deflagrazione, dovrebbero essere disinnescate con parole di attenzione. "Non mi ascolti quando parlo", "Non ti sopporto più" sono parole con un doppio significato, accuse che contengono altre frasi: "Dimmi che mi capisci, per favore confermamelo".
Le parole della vita pubblica, quelle della politica (risse, ultimatum, svolte decisive, mi dimetto se devo, dittatura della salute...), ma anche quelle della vita privata, in salotto o nelle chiacchiere private, dove più ci si stanca, più si seminano incomprensioni.
Quindi dovremmo anche concedere loro un po' di tempo libero: un buon silenzio per recuperarli più sani, una vacanza per trovarne (inventarne?) di nuovi.
Abbiamo sempre bisogno di novità e di imprevisti, e le nostre parole non sono da meno. Se diventano evidenti, ci tradiscono. Ovvi sono quelli a cui ricorriamo senza averli scelti, che raccogliamo così, un po' a caso, per strada, dove altri li hanno usati e lasciati cadere. In questo modo non ci corrispondono completamente, ci omologano, ne usciamo tutti uguali. Che cosa terribile. Perché non solo non sanno trasmettere la verità su di noi, cioè la nostra unicità, ma non ci aiutano nemmeno a formulare un pensiero originale.
È un'esperienza quotidiana: le parole comunicano i nostri pensieri, ma li generano anche. Se sono banali, generano pensieri altrettanto banali, imitano il nulla. Si potrebbe obiettare: beh, se usassimo tutti le stesse parole, potremmo essere più comprensibili e quindi potremmo capirci meglio. Questa è la trappola: è come optare per un bicchiere di plastica invece che per un bicchiere di cristallo per un buon vino rosso. Un po' come "maestro" che viene scalzato da "influencer", o "discepolo" che viene schiacciato da "seguace", o "stupore" che diventa "fliiiiiiipo", ripetuto come uno stupido scambio.
Le cose rivoluzionarie che ci sono accadute (res novaeIl nuovo discorso, come dicevano i latini, e che ci ha lasciato un po' disorientati, ha bisogno di un nuovo discorso, di nuove parole. Negli anni Settanta, un certo Grice individuò quattro massime conversazionali per un discorso capace di stabilire buone relazioni. La prima è la quantità: non dire troppo o troppo poco; poi viene la qualità, quasi sinonimo di sincerità: trovare il modo di dire ciò che si pensa; la terza è la relazione: ci deve essere rilevanza in ciò che si dice, attenersi ai fatti; infine, la forma: essere chiari, non parlare per enigmi o per allusioni.
Quindi questa vacanza "ecologica" per le nostre parole, tra silenzio (nostro) e ascolto (degli altri), al ritmo di quattro semplici massime, potrebbe far bene alle nostre parole, e quindi a noi.
Potremmo incontrarci di nuovo in età più giovane.
Laurea in Lettere classiche e dottorato in Sociologia della comunicazione. Direttore della Comunicazione della Fondazione AVSI, con sede a Milano, dedicata alla cooperazione allo sviluppo e agli aiuti umanitari nel mondo. Ha ricevuto diversi premi per la sua attività giornalistica.