Grazie, Signore, per averci reso così meravigliosi.

Dio non vuole vederci trascinati e umiliati dal peso dei nostri peccati, ma se il nostro autocompiacimento ci porta a vederci migliori degli altri... non solo i nostri piedi, ma persino il nostro cuore si è infangato.

20 Maggio 2021-Tempo di lettura: 3 minuti

Una delle parabole più suggestive del Vangelo è quella nota come "parabola del fariseo e dell'esattore delle tasse", riportata dall'evangelista Luca nel capitolo 18.

La realtà è che Dio non tollera la sufficienza: la tentazione di essere così soddisfatti di sé da finire per considerarsi la misura di tutte le cose. Questa è la sufficienza del fariseo, di colui che, certamente, ha fatto molte "cose buone" ma le ha ridotte, nel suo intimo, a un esercizio di mera realizzazione di sé e che, inoltre, guarda con sospetto colui che considera peccatore, impuro e imperfetto.

Il fariseo è l'incarnazione di quell'atteggiamento di arroganza che, come sottolinea Charles J. Chaput, si trova non di rado nelle nostre chiese: Quante omelie e canzoni non fanno altro che accarezzare sottilmente la vanità? Quante preghiere, in effetti, dicono: "Grazie, Dio, per averci reso così grandi". Aiutateci ad essere ancora migliori di quello che già siamo"? l'arcivescovo emerito di Philadelphia si chiede ironicamente in Stranieri in terra straniera.

E così è. Non di rado, il nostro giudizio è un po' offuscato da quel peccato cardinale chiamato orgoglio, che può sembrare così lontano ma che in realtà è così sibillino. L'orgoglio "in piccolo", quello che si insinua nel nostro cuore sotto forma di applauso alla nostra immagine allo specchio, fino a impossessarsi completamente del nostro amore. È allora che non vediamo Dio come un Padre misericordioso, ma come un "dispensatore di ricompense": "O Signore, devi darmi questo perché sono grande (come vedi)".

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Veniamo a Dio aspettandoci che ci dia una medaglia per i meravigliosi doni che abbiamo ottenuto con i nostri mezzi... Come il fariseo. Siamo felici di averlo incontrato e ancor più felici di "non essere come lui". E, dal racconto di Luca, il Signore non è particolarmente entusiasta di questo.

Non perché Dio voglia vederci tristi, lamentosi, gementi, trascinati e umiliati dal peso dei nostri peccati, ma perché, quando il nostro autocompiacimento ci porta a vederci migliori degli altri, una sorta di torre d'avorio immacolata che potrebbe ben servire da esempio, quando immaginiamo la nostra agiografia con capitoli e copertine... non solo i piedi, ma persino il cuore ha raggiunto il fango.

Ricordo quando Papa Francesco pubblicò quella lettera del 20 agosto 2018 in cui, chiedendo perdono per gli abusi sui minori, disse: "con vergogna e rammarico, come comunità ecclesiale, accettiamo di non aver saputo dove dovevamo essere, di non aver agito in tempo per riconoscere l'ampiezza e la gravità del danno che veniva causato in tante vite". Ho poi sentito una persona che dava "lezioni di morale" dire che riteneva ingiusto che il Papa mettesse tutti "nello stesso sacco perché non doveva chiedere perdono per niente del genere", e in effetti lo ha fatto; come sicuramente lo abbiamo fatto io e voi. Ma stava dimenticando quel punto chiave della nostra fede chiamato Comunione dei santi e perché siamo tutti, in qualche modo, nello "stesso sacco": pubblicani e farisei. A maggior ragione, perché a volte siamo l'uno e a volte l'altro. Perché possiamo sempre tornare al tempio per riconoscere che, alla fine della giornata, se abbiamo qualcosa da dire davanti a Dio, si riassume in quelle tre parole di un santo moderno: grazie, perdonatemi e aiutatemi di più.

L'autoreMaria José Atienza

Caporedattore di Omnes. Laureata in Comunicazione, con oltre 15 anni di esperienza nella comunicazione ecclesiale. Ha collaborato con media come COPE e RNE.

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