Alla fine dello scorso agosto, ho partecipato a Roma a un convegno di concistoro riunione straordinaria convocata dal Papa per discutere della costituzione apostolica Praedicate Evangelium. Con questo bellissimo e raccomandatissimo testo si conclude la riforma della Curia romana e ci viene ricordato che la Chiesa "adempie al suo mandato soprattutto quando testimonia, con le parole e con le opere, la misericordia che essa stessa ha gratuitamente ricevuto" (n. 1).
Anche se gli incontri sono a porte chiuse, posso dire che, per me, è stato un dono poter condividere tempo e riflessioni su questo mandato con il Successore di Pietro e con l'intero Collegio Cardinalizio, la cui composizione parla proprio della ricchezza della nostra Chiesa. Insieme abbiamo sentito ancora una volta che il Signore ci incoraggia alla missione; abbiamo sperimentato come ci incoraggia e ci spinge a portare la Buona Novella ai nostri contemporanei, ovunque si trovino e in qualsiasi condizione si trovino.
Come Francesco ha sottolineato in innumerevoli occasioni in questi anni di pontificato, Gesù stesso ci mette in viaggio: "Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a tutta la terra" (Mc 16,15). Oggi, quando il mondo è colpito da tanti conflitti e scontri - dall'Ucraina all'Etiopia, dall'Armenia al Nicaragua - e molte persone - soprattutto le più vulnerabili - affrontano il futuro con paura e incertezza, è più urgente che mai per i cattolici proclamare che Cristo ha vinto la morte e che il dolore non può avere l'ultima parola.
Per sottolineare l'urgenza della missione, nella mia lettera pastorale per l'anno accademico appena iniziato, intitolata In missione: tornare alla gioia del VangeloMi rivolgo alla parabola del figliol prodigo o, meglio, del padre misericordioso.
Noi cattolici non possiamo rimanere chiusi in noi stessi; non possiamo essere compiacenti e autoreferenziali, né dobbiamo perdere la capacità di sorprenderci o di ringraziare, come è accaduto al figlio maggiore nella parabola. Dobbiamo raggiungere i battezzati che, come il figlio minore, hanno lasciato la casa e si sono allontanati dall'amore di Dio, mentre dobbiamo cercare coloro che non conoscono Gesù Cristo o lo rifiutano.
In questa chiave, è commovente rileggere ciò che dice il padre della parabola: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, ma dovevamo fare festa e rallegrarci, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto e lo abbiamo ritrovato". (Lc 15,31-32). In questo padre vediamo Dio, un Dio che ci ama, un Dio misericordioso che ci ha dato tutto e che ci lascia persino liberi di andarcene.
Nella fase diocesana del Sinodo di Madrid è emerso chiaramente il desiderio di vivere che Dio ci ama e di mostrarlo anche ai nostri fratelli e sorelle, a quelli che se ne sono andati e a quelli che non lo hanno mai conosciuto. Per fare questo, innanzitutto, nella nostra arcidiocesi è emerso chiaramente che è necessario che ognuno di noi credenti curi la propria preghiera e il proprio incontro con Dio, cerchi di vivere il Vangelo con coerenza e lo faccia in comunità. Non possiamo essere isole deserte o chiuderci nei nostri gruppi, ma dobbiamo sentirci parte della Chiesa in pellegrinaggio nel mondo.
Solo così potremo affrontare, in secondo luogo, le sfide della Chiesa stessa emerse in questa fase, come il concetto di autorità e di clericalismo; la responsabilità dei laici e la creazione di spazi di partecipazione; il ruolo dei giovani e delle donne; l'attenzione alla vita familiare; la cura delle celebrazioni, affinché siano vivaci e profonde; la valorizzazione della pluralità dei carismi; la formazione alla sinodalità e alla dottrina sociale della Chiesa e una maggiore trasparenza.
Questo ci porterà, in terzo luogo, ad essere una Chiesa che, senza nascondere la verità, è sempre in un necessario dialogo con la società. E ci porterà anche a essere una Chiesa samaritana con le porte aperte; una Chiesa che non lascia nessuno a piedi sulla strada, che aiuta e accompagna coloro che la società ha lasciato ai margini - come tante persone in situazioni di vulnerabilità - e che accoglie coloro che possono essersi sentiti rifiutati persino dalla Chiesa stessa.
In una catechesi sul discernimento all'udienza generale del 28 settembre - che sto rileggendo mentre finisco queste righe - il Papa si è rivolto al suo amato Sant'Ignazio per chiedere la grazia di "vivere un rapporto di amicizia con il Signore, come un amico parla a un amico". Secondo lui, ha incontrato "un anziano fratello religioso che era custode della scuola".che, quando poteva, "si avvicinò alla cappella, guardò l'altare, disse: "Ciao", perché era vicino a Gesù. "Non ha bisogno di dire: 'Bla, bla, bla', non: 'Ciao, io sono vicino a te e tu sei vicino a me'", ha detto Francesco, sottolineando che "questo è il rapporto che dobbiamo avere nella preghiera: la vicinanza, la vicinanza affettiva, come fratelli, la vicinanza con Gesù".. Che tutti noi sappiamo mantenere questo rapporto con il Signore per intraprendere, con determinazione, l'entusiasmante missione che ci è stata affidata.
Cardinale arcivescovo di Madrid.