Articoli

Considerazioni sul motu proprio Ad charisma tuendum sull'Opus Dei

Abbiamo chiesto al professor Giuseppe Comotti, esperto giurista, di commentare il documento della Santa Sede (il motu proprio Ad charisma tuendum) che, il 14 luglio, ha modificato alcuni aspetti della regolamentazione canonica dell'Opus Dei. Le sue considerazioni si basano su due interpretazioni chiave.

Giuseppe Comotti-8 settembre 2022-Tempo di lettura: 5 minuti
opus dei

Testo originale dell'articolo in spagnolo qui

Testo dell'articolo in italiano qui

Traduzione:  Peter Damian-Grint

Una corretta interpretazione della reale portata del recente motu proprio Ad charisma tuendum richiede l'uso di due chiavi ermeneutiche fornite dallo stesso Papa Francesco nel documento.

La prima chiave di lettura è il riferimento esplicito del motu proprio alla Costituzione Apostolica Ut sitcon cui San Giovanni Paolo II ha eretto la prelatura personale della Santa Croce e dell'Opus Dei il 28 novembre 1982.

Mi sembra importante sottolineare che il nuovo motu proprio non abroga la Costituzione Apostolica, ma si limita ad adattarla alla nuova organizzazione della Curia Romana, che prevede in modo generale che d'ora in poi sarà il Dicastero per il Clero, e non più il Dicastero per i Vescovi, ad avere competenza per tutto ciò che riguarda la Sede Apostolica in materia di prelature personali. 

Per il resto, la struttura e il contenuto della Costituzione Apostolica Ut SitLa filosofia dell'Opus Dei, incisivamente sintetizzata dallo stesso Giovanni Paolo II nel discorso tenuto il 17 marzo 2001 ai partecipanti a un incontro promosso dalla prelatura dell'Opus Dei, rimane intatta. In quel discorso, il Santo Pontefice ha usato espressioni inequivocabili non solo per descrivere la prelatura come "organicamente strutturata", cioè composta da "sacerdoti e fedeli laici - uomini e donne - alla cui testa c'è il proprio Prelato", ma anche per riaffermare la "natura gerarchica dell'Opus Dei, stabilita nella Costituzione Apostolica con la quale ho eretto la prelatura".

Dalla sua natura gerarchica, San Giovanni Paolo II ha tratto "considerazioni pastorali ricche di applicazioni pratiche", sottolineando "che l'appartenenza dei fedeli laici sia alla loro Chiesa particolare sia alla Prelatura, alla quale sono incorporati, fa convergere la particolare missione della Prelatura nell'impegno evangelizzatore di ogni Chiesa particolare, come il Concilio Vaticano II aveva previsto proponendo la figura delle prelature personali".

Questo riferimento al Concilio Vaticano II è estremamente significativo e costituisce la seconda chiave ermeneutica del motu proprio. Ad charisma tuendumdove si sottolinea espressamente la necessità di fare riferimento agli "insegnamenti dell'ecclesiologia conciliare sulle prelature personali". 

È noto che l'ultimo Concilio, nel prevedere la possibilità di istituire "diocesi speciali o prelature personali e altre provvidenze del genere" per facilitare "non solo la conveniente distribuzione dei sacerdoti, ma anche le opere pastorali proprie dei vari gruppi sociali da svolgere in qualche regione o nazione, o in qualsiasi parte del mondo" (Decreto Presbyterorum Ordinis, n. 10), non ne ha delineato i contorni precisi, preferendo lasciare spazio al futuro dinamismo ecclesiale e a una disciplina articolata, "secondo moduli da determinare per ogni caso, salvaguardando sempre i diritti degli ordinari locali".

I successivi interventi dei Romani Pontefici, nel mettere in pratica la prospettiva indicata dal Concilio, hanno lasciato aperti anche questi spazi. È il caso del motu proprio Ecclesiae Sanctæ di San Paolo VI (6 agosto 1966) e, soprattutto, del Codice di Diritto Canonico di San Giovanni Paolo II del 1983, dove alcune disposizioni sono dedicate alle prelature personali (canoni 294-297), che possono concretizzarsi in modi diversi, secondo le esigenze individuate dalla Santa Sede, cui spetta l'erezione delle prelature personali.

Tuttavia, va notato che il Codice di diritto canonico del 1983 (a differenza del Codice precedente, che ammetteva l'esistenza del "prelato" come semplice titolo onorifico) usa il termine "prelato" esclusivamente per indicare soggetti diversi dai vescovi diocesani, ma che hanno, come loro, la potestà di ordinari propria, la potestà di ordinari veri e propri rispetto ad ambiti di esercizio del potere di governo denominati "prelature", ulteriormente specificati con la qualifica di territoriali o personali, secondo il criterio adottato di volta in volta per individuare i fedeli destinatari dell'esercizio del potere. Detto questo, il Codice di Diritto Canonico lascia spazio a un'ampia varietà di configurazioni specifiche che le singole prelature potrebbero ricevere negli statuti dati a ciascuna di esse dalla suprema autorità della Chiesa.

All'interno di questo ampio spazio di libertà, il Codice di Diritto Canonico non prevede la necessità - ma nemmeno esclude la possibilità - che il prelato sia investito della dignità episcopale: questa scelta dipende esclusivamente da una valutazione del Romano Pontefice, che solo nella Chiesa latina è responsabile della nomina dei vescovi.

Il astratto La compatibilità con la natura di prelatura personale con a capo la dignità episcopale del soggetto è confermata, infatti, dalla decisione di San Giovanni Paolo II di nominare vescovi i due precedenti prelati dell'Opus Dei, ai quali egli stesso ha conferito personalmente l'ordinazione episcopale.

D'altra parte, esistono circoscrizioni ecclesiastiche di natura territoriale a capo delle quali si trovano prelati che sono certamente titolari di un potere di governo di natura gerarchica, ma che tuttavia non sono solitamente investiti della dignità episcopale (potremmo pensare alle prefetture apostoliche nei territori di missione).

A ciò va aggiunto che - come indicato nel motu proprio - nella prospettiva di un esercizio delle funzioni di governo non limitato ai soli vescovi, le insegne pontificie non sono riservate dal diritto canonico esclusivamente a questi ultimi, ma il loro uso è previsto per una categoria molto più ampia di soggetti, anche se non elevati all'episcopato: come, ad esempio, i cardinali e i legati del Romano Pontefice; gli abati e i prelati che hanno giurisdizione su un territorio separato da una diocesi; gli amministratori apostolici costituiti in modo permanente; i vicari apostolici e i prefetti apostolici; gli abati delle congregazioni monastiche.

Pertanto, se possiamo facilmente accettare che le funzioni di un prelato possano essere affidate a un presbitero, tuttavia le prelature personali comportano sempre l'esercizio della potestà di governo ecclesiastico: se non altro perché, come previsto dal canone 295, § 1, il prelato personale "ha il diritto di erigere un seminario nazionale o internazionale, nonché di incardinare studenti e promuoverli agli ordini con il titolo di servizio alla prelatura".

Il fatto che Papa Francesco intenda opportunamente tutelare l'origine "carismatica" dell'Opus Dei, "secondo il dono dello Spirito ricevuto da San Josemaría Escrivá de Balaguer", non impedisce in alcun modo che la prelatura, in quanto tale, sia stata eretta mediante una Costituzione Apostolica, che è lo strumento solitamente utilizzato dal Romano Pontefice per istituire circoscrizioni ecclesiastiche, attraverso le quali l'esercizio della potestà di governo che corrisponde alla gerarchia è distribuito e regolato.

Di conseguenza, il motu proprio Ad charisma tuendum, in linea con il Magistero del Concilio, lungi dall'imporre una netta separazione tra la dimensione carismatica e quella istituzionale-gerarchica dell'Opus Dei, deve essere letto come un invito a vivere con "un nuovo dinamismo" (cfr. San Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Novo millennio ineunte, n. 15) la fedeltà al carisma di San Josemaría, che la suprema autorità della Chiesa, attraverso la Costituzione Apostolica Ut Sitsi è tradotta nell'istituzione di una prelatura personale, cioè di uno strumento di un'autorità di governo. gerarchico natura.

Alla prelatura è affidato quello che Papa Francesco definisce nel motu proprio un "compito pastorale", da svolgere "sotto la guida del presule", e che consiste nel "diffondere la chiamata alla santità nel mondo, attraverso la santificazione del lavoro e degli impegni familiari e sociali, per mezzo dei chierici in essa incardinati e con la cooperazione organica dei laici che si dedicano alle opere apostoliche".

Un compito che, proprio perché pastorale, non può che essere condiviso con i pastori della Chiesa e che, per quanto riguarda il suo contenuto, non si riferisce a specifiche categorie di soggetti, ma coinvolge tutti i fedeli, chiamati alla santità in virtù del Battesimo e non in ragione di una particolare scelta di vita.

L'autoreGiuseppe Comotti

Professore di diritto canonico e diritto ecclesiastico

Università di Verona

Per saperne di più
Newsletter La Brújula Lasciateci la vostra e-mail e riceverete ogni settimana le ultime notizie curate con un punto di vista cattolico.
Banner pubblicitari
Banner pubblicitari