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La teologia del Concilio Vaticano II

Nel Concilio Vaticano II è stata raccolta e prodotta molta teologia. Sono stati tre anni di lavoro di numerosi esperti e vescovi dedicati per riflettere sulla fede (“fides quaerens intellectum”) con l'obiettivo proposto da Giovanni XXIII: spiegare meglio il messaggio della Chiesa al mondo moderno

Juan Luis Lorda·17 de octubre de 2022·Tiempo de lectura: 8 minutos
concilio vaticano ii

Testo originale del articolo in spagnolo qui

Parlare di «teologia del Concilio» è perfettamente legittimo. Infatti, il Concilio non solo ha avuto un orientamento pastorale, ma ha anche raccolto i frutti di tanta buona teologia e consolidato molte espressioni e prospettive. Non è possibile qui citarle tutte però è utile tentare una sintesi. Guarderemo solo alle quattro Costituzioni e al Decreto sulla libertà religiosa.

La Costituzione Dogmatica Dei Verbum e la forma della rivelazione cristiana

Il Concilio iniziò occupandosi di rivelazione, ma il primo schema (1962) non piacque, perché giudicato troppo scolastico. Ciò condusse a modificare tutti gli schemi già preparati. Rahner e Ratzinger fecero una proposta di un nuovo schema, che però non ebbe successo. Dopo lunga elaborazione, fu ottenuto un breve testo su Rivelazione e Scrittura che include il rinnovamento della Teologia Fondamentale (1965) e i suggerimenti di Newman, precursore e ispiratore del Concilio Vaticano II.
Nei primi capitoli si tratta della rivelazione, di Dio, della risposta umana (fede) e della trasmissione o tradizione (I e II); e il resto riguarda la Sacra Scrittura.

Davanti all’antica consuetudine scolastica di centrare la rivelazione sull’insieme delle verità rivelate (dogmi), la «Dei Verbum» si sofferma sul fenomeno storico della rivelazione (nº 1 e nº 6). Dio si manifesta operando la salvezza nella storia, in varie tappe, fino alla pienezza in Cristo. “Con fatti e parole”, non solo con parole. C’è una profonda rivelazione in eventi come la Creazione e l’Esodo, l’Alleanza e, ancor più, l’Incarnazione, Morte e Resurrezione del Signore. Sono i grandi misteri della storia della salvezza. Inoltre, «non è più necessario attendere alcuna rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo» (n. 4).

Nella Chiesa la “Dei Verbum” presenta la fede come risposta personale a quella rivelazione (co questo più avanti inizia il Catechismo), e spiega il concetto di tradizione (vivente) e il suo rapporto con il Magistero e la Scrittura (cap. II).
La stessa Scrittura è il frutto della prima tradizione.
Viene così superato lo schema infelice delle «due fonti» in quanto «La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un unico sacro deposito» (10).

Vi si descrive il peculiare rapporto tra l’azione di Dio e la libertà (e la cultura) umana nella scrittura dei testi (l’ispirazione). È riconosciuta l’opportunità di distinguere i generi letterari per interpretarli, in quanto una narrazione simbolica non coincide con la descrizione storica di un fatto.
E in poche righe vi si propone un intero trattato sull’esegesi di quello che si crede: «La Sacra Scrittura deve essere letta e interpretata con lo stesso Spirito con cui è stata scritta. Per ricavare l’esatto significato dei testi sacri, occorre curare non meno diligentemente il contenuto e unità di tutta la Sacra Scrittura, tenendo conto della Tradizione viva di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede» (12).

Dopo aver spiegato il profondo rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, si dà un deciso impulso pastorale a conoscere e utilizzare di più la Scrittura (cap. VI), con buone traduzioni e istruendo i fedeli. Si fa notare che «lo studio della Sacra Scrittura deve essere come l’anima della Sacra Teologia» (24), così come pure della predicazione e della catechesi (24). Perché «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (25).

Sacrosanctum Concilium e il cuore della vita della Chiesa

Una volta ritirato lo schema sulla sola rivelazione, il Concilio ha iniziato a lavorare su questo bel documento, che raccoglie il meglio del movimento liturgico, che spazia dal rinnovamento di Solesmes (Dom Geranguer) a «Il senso della liturgia«, di Guardini, passando per la teologia dei misteri di Odo Casel.

La liturgia è presentata come celebrazione del mistero di Cristo, dove si compie la nostra salvezza e cresce la Chiesa. Il primo capitolo, il più lungo, tratta dei principi della siddetta «riforma«. Il secondo si riferisce al «mistero sacrosanto dell’Eucaristia» (II), e così via agli altri sacramenti e sacramentali (lll), all’Ufficio divino (IV), all’anno liturgico (V), alla musica sacra (Vl) e all’arte e agli oggetti di culto (VII).
Si chiude con un’appendice sulla possibilità di modificare il calendario e la data della Pasqua.

La liturgia celebra sempre il mistero pasquale di Cristo (6), a partire dal Battesimo in cui i fedeli, morendo al peccato e risorgendo in Cristo, sono incorporati al suo Corpo mediante la vita eterna che lo Spirito Santo dona loro. È un culto rivolto al Padre, in Cristo, animato dallo Spirito Santo, ed è ecclesiale, perché nella propria dimensione ecclesiale tutto il corpo della Chiesa agisce sempre unito al suo Capo. E si celebra l’unico mistero pasquale di Cristo, in terra come in cielo, e nella dimensione escatologica questo è per sempre.

Il Concilio ha voluto che i fedeli partecipassero meglio al mistero liturgico aumentando la loro formazione. Inoltre, ha dato una moltitudine di indicazioni per migliorare il culto cristiano in tutti i suoi aspetti.

Purtroppo, l’applicazione di queste sagge indicazioni ha superato ogni limite presso gli organi preposti, cioè il «Consilium» e le Conferenze episcopali.
Infatti, prima che i vescovi fossero istruiti, e molto prima che i libri liturgici fossero rielaborati, molti entusiasti alterarono la liturgia con banalizzazioni arbitrarie.
Non sono bastate le lamentele di molti teologi (De Lubac, Daniélou, Bouyer, Ratzinger…) e di intellettuali cattolici (Maritain, Von Hildebrand, Gilson…). Questo disordine ha causato in qualche fedele sconcertato una reazione anticonciliare che perdura ancora oggi, e che ha anche dato luogo anche allo scisma di Lefebvre. Conviene rileggere bene il documento per vedere quanto resta da imparare.

La Lumen Gentium, culmine del Concilio

Questa “Costituzione dogmatica» (una di quelle così chiamate) è il nucleo teologico del Concilio, perché sulla scia del Concilio Vaticano I e della «Mystici corporis«, sviluppa ampiamente la dottrina sulla Chiesa e illumina gli altri documenti conciliari sui vescovi, i  chierici,  i religiosi, l’ecumenismo, il rapporto con le altre religioni e l’evangelizzazione. La sua ricchezza e articolazione teologica deve molto a Johan Adam Moeller, Guardini, De Lubac e Congar, e alla sapiente mano redazionale di Gerard Philips, che in seguito ne ha fatto uno splendido commento.

Già il primo numero pone tutto ad un livello molto alto: «La Chiesa è in Cristo come un sacramento, cioè è segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutta l’umanità». Questa convocazione universale esprime ciò che è la Chiesa e, allo stesso tempo, la realizza tra gli uomini unendoli al Padre in Cristo mediante lo Spirito. Per questo motivo è “come un sacramento”.

Va sottolineata la relativa novità della parola patristica “mistero”, perché la Chiesa è in sé stessa mistero della presenza, della rivelazione, e dell’azione salvifica di Dio, e proprio per questo è mistero di fede.
È mistero legato al mistero della Trinità (Chiesa della Trinità) perché la Chiesa è un popolo creato e convocato da Dio Padre, riunito per il culto nel Corpo di Cristo, che ne è il capo e rende reale il culto. È la Chiesa è anche edificata in Cristo come tempio di pietre vive, per opera dello Spirito Santo. Per tutto questo è intimamente legata al Mistero della liturgia (“Ecclesia de Eucharistia”) ed è anche Chiesa della Trinità, perché la sua comunione di persone, cioè comunione dei santi, comunione nelle cose sante, si riflette e si dilata nel mondo; la comunione delle persone trinitarie, che nella sua dimensione escatologica è il destino ultimo dell’umanità è come il fermento e l’anticipazione del Regno .

Comprendere la Chiesa in quanto mistero salvifico di comunione con Dio e tra gli uomini permette di superare la visione esterna, sociologica o gerarchica della Chiesa stessa; permette di affrontare adeguatamente il rapporto tra il Primato papale e il Collegio episcopale, di mettere in luce la dignità del Popolo di Dio e la chiamata universale alla santità, e di partecipare pienamente al culto liturgico e alla missione della Chiesa.

Tutti gli esseri umani sono chiamati ad unirsi a Cristo nella sua Chiesa. Lo Spirito Santo realizza questo nella storia in vari gradi e forme, a partire dalla comunione esplicita di coloro che vi partecipano pienamente, fino alla comunione interiore di coloro che sono fedeli a Dio nella loro coscienza («Lumen gentium», nn. 13- 16).

Ecco perché questo mistero di unità è la chiave dell’ecumenismo, il nuovo impegno del Concilio per realizzare la volontà del Signore (“che tutti siano uno”), con un cambio di prospettiva in un grande documento (“Unitatis redintegratio”).
È diverso contemplare la genesi storica delle divisioni e degli scismi con i loro traumi, e il loro stato attuale, dove i cristiani di buona fede (ortodossi, protestanti e altri) partecipano realmente ai beni della Chiesa.
A partire da questo va ricercata la piena comunione, attraverso la preghiera, la collaborazione, il dialogo e la comprensione reciproca, e soprattutto attraverso l’azione dello Spirito Santo. La piena comunione in sacris non è il punto di partenza, ma il punto di arrivo.

La Gaudium et Spes e quello che la Chiesa può offrire al mondo

Per comprendere la portata teologica della Gaudium et spes, dobbiamo ricordarne la storia.

Quando furono ritirati i primi schemi, come sopra abbiamo visto, si decise di orientare il Concilio con due domande: cosa dice di sé la Chiesa, il che ha dato origine alla «Lumen gentium«, e cosa può contribuire la Chiesa alla «costruzione del mondo”, il che poi avrebbe dato origine alla “Gaudium et spes”.
Già allora si pensava alle grandi questioni: la famiglia, l’educazione, la vita sociale ed economica, la pace, che formano i capitoli della seconda parte.

Sebbene sembri facile parlare di questi temi in chiave cristiana, non è così facile stabilire una dottrina teologica universale, perché ci sono troppe questioni temporanee, specializzate e … discutibili. Per questo le fu dato il titolo di Costituzione “pastorale”, e si notò che la seconda parte, ricca di spunti interessanti, era più opinabile della prima, più dottrinale.

Quella prima parte era sorta spontaneamente, per la necessità di dare un fondamento dottrinale a ciò che la Chiesa poteva apportare al mondo. E si è rivelato un felice compendio dell’antropologia cristiana, con tre intensi capitoli sulla persona umana e la sua dignità, la dimensione sociale dell’essere umano e il senso della sua azione nel mondo. E un quarto capitolo riassuntivo apparentemente scritto in gran parte proprio da san Karol Wojtyła insieme al Cardinale Daniélou.  Anche lo stesso Paolo VI nel suo viaggio all’Onu ricordava che la Chiesa è «esperta di umanità».

Giovanni Paolo II ha costantemente evidenziato che Cristo conosce l’essere umano ed è vera immagine dell’uomo (n. 22) e che «c’è una certa somiglianza tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella verità» (24), proprio come avviene nelle famiglie, nelle comunità cristiane e che va ricercata in tutta la società. Questa frase si conclude con questa espressione luminosa della vocazione umana: «Questa somiglianza mostra che l’uomo, l’unica creatura terrena che Dio ha amato per sé stessa, non può trovare il proprio compimento se non è nel dono sincero di sé agli altri» (24).

Inoltre, l’ultimo capitolo della prima parte della Costituzione pastorale ha ricordato che: «I laici sono propriamente, ma non esclusivamente, responsabili dei compiti secolari e del dinamismo […] devono tendere ad acquisire una vera competenza in tutti i campi» e «una coscienza ben formata del laico deve far sì che la legge divina rimanga scolpita nella città terrena» (43). Qui c’è ancora troppo da fare… 

La dichiarazione Dignitatis humanae e un cambiamento dei criteri nei confronti con il liberalismo

Pur trattandosi di un documento minore, questo decreto ha un’importanza strategica nel rapporto della Chiesa con il mondo moderno.

Molti vescovi avevano chiesto che il Concilio proclamasse il diritto alla libertà religiosa, perché molti erano soggetti a dittature comuniste, come nel caso di Karol Wojtyła. I regimi liberaldemocratici hanno riconosciuto questo diritto come una parte essenziale della loro genealogia.
I cittadini sono liberi di ricercare la verità religiosa ed esprimerla liberamente nel culto, anche pubblico, purché nel rispetto dell’ordine pubblico.

L’esperienza storica della proclamazione liberale della libertà religiosa era stata molto benefica per la Chiesa cattolica laddove era perseguitata o dove esisteva una religione ufficiale, come in Inghilterra e nei paesi ufficialmente protestanti come la Svezia, la Danimarca e altri, e sarebbe una grande liberazione nei paesi ancora comunisti o anche in quelli musulmani.

Ma non era questa la tradizione delle antiche nazioni cristiane, fossero cattoliche o protestanti, perché, si sosteneva che «la verità non ha gli stessi diritti dell’errore«.
Per questo, nel XIX secolo, le autorità ecclesiastiche, a tutti i livelli, così come si erano opposte alla diffusione di pubblicazioni contrarie alla fede e alla morale, si opposero fermamente ai tentativi liberali di instaurare la «libertà di culto» nei paesi cattolici.
Era un conflitto di prospettive: quella di una nazione intesa come comunità religiosa e quella della libera coscienza della persona.

È pur vero che, in un regime protetto, come quello di una famiglia con figli, i genitori possono e anzi devono impedire entro certi limiti, la diffusione di opinioni errate nel proprio ambito familiare.
Ma questo è fuori luogo quando i figli si sono emancipati, perché allora prevale il diritto fondamentale di ognuno a cercare da sé la verità.
Ed è questo ciò che accade nelle società moderne, con persone emancipate e con pieno diritto. Si passa dalla tutela del bene comune di una società omogenea dal punto di vista della religione, al pieno riconoscimento del diritto fondamentale di ogni persona alla ricerca della verità.

Tuttavia, questo cambiamento fu considerato eretico dall’arcivescovo Lefebvre, causando il suo scisma. Egli sosteneva che su questo punto il Concilio contraddice la dottrina tradizionale della Chiesa, e quindi non è valido.

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